mercoledì 20 gennaio 2016

Carolus Cergoly

il pianeta Trieste

(estratto)

Dove l'Adriatico finisce nel suo estremo Nord in una curva di questo mare incantevole e suadente, si trova Trieste, anzi il Trieste, come lo chiamava nei tempi antichi la gente antica.
Il gran porto di mare, il porto che serviva tutto l'entroterra dell'Impero, il gran porto austriaco pieno di vita, di giovinezza e di mare. Trieste un'immagine del mondo, hohò Trieste città gentilissima e mercantile, città ponte, odori di spezie e di coloniali, Trieste pacifica e domestica, ombelico del mondo oh pianeta Trieste.
Trieste città fedelissima e immediata all'Impero col suo Imperatore Signore di Trieste... e allora?
E allora? C'era una volta una spruzzaglia di povere case, di poveri pescatori che pescavano in un mare ricco di pesci e di sirene con povere reti tutte buchi, rattoppi e strappi.
Dietro a queste povere case una manciata di altre povere case di poveri agricoltori con poveri campicelli tutti polvere di calcare in frantumi di bora.
E questa povera gente si voleva bene volendosi bene andava d'accordo un accordo tutto in viola d'amore.
Gli agricoltori con occhio lucido di verde guardavano il mare e i pescatori con occhio fresco di salsedine guardavano i campicelli di calcare in frantumi.
Poi tutti guardavano il sole quando si sveglia e quando va a dormire e s'inchinavano a questo sole che fa cantare gli uccelli e mette i pesci in allegria di nuoto, come fosse un grande pescatore o agricoltore vestito di raggi in splendore di polvere d'oro.
Un giorno Net il pescatore e Past l'agricoltore si accorsero che il sole aveva viso d'uomo con una bocca larga come una foglia di salata e questa bocca parlava e diceva: Net e Past io sono il vostro dio Triopa e vengo da lontano dall'Asia e mi piace nascondermi vestito in figura e montura di sole.
Net e Past si buttarono per terra e dissero: o nostro caro dio Triopa noi ti onoreremo mattina e sera ma tu devi farci saltar fuori da questa nostra miseria, darci buone reti buone vanghe, pesci d'argento e frutti di prima rugiada.
E tutta la gente di mare e quella di campo lo invocavano quando Triopa in montura di sole si alzava al mattino e alla sera quando stanco, sempre in montura di sole, si metteva dentro le fresche lenzuola mentre suo cugino Morfeo gli cantava la ninna nanna.
Tutti i Net quanto tutti i Past lo invocavano e dicevano: Quando sorgi e quando tramonti o nostro Triopa riempi le nostre case terrene e marine della tua bellezza perché tu sei bello e potente. Quando splendi le nostre povere case sono piene di gioia e le pecore spiccano salti di gioia ed i pesci nel mare tutti un guizzar e scivolar d'argento. Questo dicevano quasi cantando e dondolando i Net ed i Past marini e terreni; il buon e caro Triopa sentendosi così lodato e onorato cominciò a dare una mano di fortuna a tutti i Net e a tutti i Past che vivevano nella estrema curva del mare Adriatico sempre incantevole e suadente.
Lentamente la gente cominciò ad essere meno povera e qualcuno già cercava di arrampicarsi sul gradino del benessere e qualche altro su quello del benestante.
Le case marine e terrene cominciarono a moltiplicarsi a farsi di bella facciata e dentro confortevoli con focolaio e lucerne a tre e anche a cinque becchi.
Barche perfette di prora tagliamare, reti senza strappi e tutte un ben pigliapesci, vanghe, vomeri e finalmente pastini tutti a pali di vite e ricche brente in cantar di vendemmia.
Ah questo Triopa diceva Past e diceva Net è stato per noi estremamente benigno ed in una notte piena di stelle settembrine decisero in suo onore di chiamare questa spruzzaglia e manciata di case dalle belle facciate e poste nell'estrema curva dell'Adriatico: Trieste. Poi prima di andare a dormire Net regalò a Past un gran bel pesce tutto squame azzurre e argento e Past un fiasco d'arrubinato vino torchiato sui pastini dove soffia il vento azzurro caldo del nord est, il vento che purifica.
Trieste, in onore di Triopa in figura di sole ma con il correre del tempo i dotti cominciarono ad arzigogolare le più contraddittorie opinioni su Trieste in derivazione del dio Triopa e questa Trieste chi la faceva derivare da radici greche, latine, celtiche, sanscrite, altri dalla parola fenicia Tarscisch altri dallo sloveno Terg o anche Trst che vuol dire mercato e anche canna palustre.
Anche Fazio degli Uberti volle dire la sua scrivendo nel suo dittamondo: “E questo nome udì che gli era detto – Perché tre volte ha tratto la radice”.
Il borgo triestino è senza mura di difesa perché è ancora un borgo povero ed essendo povero non ha nemici.
I triestini con il loro lavorare di muscolo e di cervello sono sempre meno poveri, molti sono già nel cerchio del gran benessere altri nel gran cerchio del benessere e altri ancora come tredici famiglie si considerano ma di nascosto, già di tenor di vita ricchissimo.
Le tredici famiglie o le “tredise casade” eccole nei loro cognomi: Argento, Basejo, Belli, Bonomo, Burlo, Cigotti, Giuliani, Leo, Padovino, Pellegrini, Petazzi, Stella e Tofani.
Erano tutte, per l'epoca, famiglie ricchissime ma molti figli erano diventati ancora più ricchi per l'insegnamento dei padri poveri: “Fioi attenti che i soldi xe bezzi”.
Così dicevano e così insegnavano.
Il signor Cigotti come del resto il signor Petazzi ed il signor Basejo nascondevano le loro robe ed i loro bezzi non per avarizia ma per non essere “parlai” dalla gente di media e bassa condizione sociale.
Le tredici casate erano ricche perché erano riuscite ad avere il monopolio ed il privilegio di vendita dei loro vini cresciuti e torchiati sui pastini tutti gradini in girotondo con vista sul mare.
Si erano fatti anche degli stemmi chi mettendoci un'aquila chi un bocciolo di rosa, chi degli scacchi, chi una torre.
Con il Tempo Trieste da borgo arriva al villaggio fortificato perché c'è già qualche cosa da difendere e poi sempre con il correre del Tempo ecco Trieste dirsi città con le sue mura, le sue torri, le sue balestre e lance e spade e spadoni a due mani e al calar della notte il suo Mandracchio pieno di barche benchiuso e difeso da forti e grosse catene di ferro.
Dietro le porte benserrate al calar del sole con le guardie notturne e sulle torri specialmente vicino alla caditoia dalla quale si gettava sugli assalitori olio bollente e polvere di calce, arcieri e balestrieri i quali durante i tempi di nebbia e di umido dovevano stare attenti che questa nebbia e questo umido non togliesse elasticità alle corde delle balestre.
Queste erano le piccole difese e le piccole offese di una cittadina in via di opere in progresso.
Anche le tredici sono sempre più in progresso di soldi o come più finemente dicevano i Bonomo di valsente.
Gli appartenenti alle tredici casate ogni giorno che passava si tenevano su su sempre più su tanto che un bel giorno decisero di chiamare da un paesetto fuori mura il paese di Nabresina uno scalpellino di nome Frane e di cognome Kerpan perché scolpisse di buona modellatura i loro stemmi sopra i portoni di casa.
Frane Kerpan che aveva cava a Nabresina tira su stemmi e stemmi e fa un lavoro da autentico mastro scultore, tutti contenti i tredici bene della città e pagarono al Kerpan senza contrattare quello che il Kerpan domandava.
Gli stemmi facevano una bella figura sui portoni delle tredici case e la gente diceva ma guarda come se la spassano bene questi stemmati grazie ai pastini e relativo vino bianco rosso e del terrano che è un vino rosso e forte come il sangue d'un drago innamorato in fondo di dolina.
Trieste comincia a far gola ai veneziani quanto ai pieni di cotole e dalmatiche i reverendi patriarchi di Grado e di Aquileia.
Fa gola perché Trieste non è più borgo, non più villaggio ma Trieste è città piena di mare profondo, con un porto ben fido, con tanto di mandracchio e interna darsena e banchine d'approdo e bacini di carenaggio.
Gli occhi tutti ruggiti di leone alato, gli occhi tutti incenso dei Patriarchi guardano a Trieste. Occhi di falchi sconti in torre.
Bisogna preoccuparsi, bisogna difendersi.
“Ordiniamo e vogliamo che suonandosi campana a stormo ogni persona dai quindici ai sessanta anni debba correre in Piazza e mettersi agli ordini del capitano”, che poi a sua volta era agli ordine delle tredici casate.
In porto cominciarono ad arrivare e ad attaccare bastimenti di tutte le specie e qualità: bragozzi, batane, paranze tartane e brigantini e golette e dal sottomare le turche caramussale e dal sopra mare le navi kaag dall'Olanda.
Sbarcano e imbarcano merci e tante altre “robe” che fanno l'uomo e la donna felici di vivere e di godere la vita.
In un primo giorno di marzo arrivò un convoglio da Rodi, e verso i primi di aprile sette navi al comando del capitano di lungo corso il signor comandante Phlebas che in una locanda delle rive dice all'oste buttando giù un bicchiere di “Terrano” dice ma questa vostra Trieste è veramente la gioia del viaggiatore.
Ma questo andare e venire di barche, di battane, di bastimenti, questo caricare e scaricare le merci buone e pregiate che dà il mondo disturbava tanto la Serenissima quanto i Patriarchini e allora spedizioni punitive più che guerresche, incendi di case, distruzione di pastini e un continuo sabotar di moli, di darsene e remengar del mandracchio, rapinar di merci nei magazzini e piccoli e anche grandi atti di pirateria in mare tanto di giorno quanto di notte.
La città si difendeva con coraggio ma era una lotta come diceva il sefardita negoziante Aronne Morpurgo una lotta tra Davide e Golia.
Cosa fare dicevano i cittadini, cosa fare dicevano tutti i membri delle casate, che fare contro questi infami nemici dei nostri traffici e dei nostri commerci con la gente di tutto il mondo.
Che fare? Si parla e si ragiona nelle case e nelle piazze, nelle contrade. Dice uno in Piazza Grande perché non facciamo ancora più opere fortificate perché non facciamo davanti alle mura un grosso “Rebellin”?
È tutto inutile dice un secondo, hanno armi che ti sfregolano tutti i “Rebellin” di questo mondo e dice ancora la bella Tecla e la gaia Giustina perché non cerchiamo di parlamentare con questi due draghi sputafuoco noi gente pacifica e domestica.
Sì d'accordo dice Net e lo dice anche Past sì siamo gente pacifica e domestica ma non tanto pacifica e domestica da calar le nostre braghe e di far alzar le vostre cotole di fronte a questi draghi dalle code violente e velenose.
E allora i cittadini decisero di affidare il che fare ai rappresentanti delle tredici casate perché gente navigata e di parola pronta e pratici nel trattare.
Erano d'accordo di dare carta bianca per trattare anche la comunità ebraica capeggiata dal sefardita Aronne Morpurgo e dal lamentoso askenasita Geremia e d'accordo la comunità greca con a capo l'ortodosso Spiridione Karamanlis e suo cugino Pericle Papadopulos.
Gran giornata quella del raduno nel gran cameron comunale dei rappresentanti delle tredici casate.
Tutti sono uguali tra di loro ma uno è molto più uguale degli altri. Il più uguale di tutti gli uguali è il vecchio Corvo Bonomo dalla barba color perla marina e graziosamente spartita come la coda della cometa che gli astronomi chiamano Barbata.
Il lungo e solido tavolone in mezzo al cameron e con ordine bendisposto sei rappresentanti di qua e sei rappresentanti di là e a capotavola solenne come un monumento il vecchissimo Corvo Bonomo.
Ogni rappresentante della “casada” ha portato il suo balestriere ed il donzello, che in altri comuni chiamano pomposamente paggio con una gran brocca piena di vino per tirarsi su quando c'è bisogno di tirarsi su.
Corvo Bonomo il nestore delle tredici casate per i tempi che correvano era uomo che vede moderno, che vede lontano un uomo pieno di ardente autentico spirito adriatico.
Donzello, dice Corvo Bonomo, riempi il mio “Nautilus” di vino di pronta beva ed il donzello riempie il bicchiere a conchiglia di un vin chiaretto che si torchia su a Vipacco un vino vellutato un vino proprio di pronta e lunga beva.
Pomeriggio del 20 settembre del 1382 si comincia a discutere s'è meglio calare le braghe ai veneziani o meglio calarle ai reverendi patriarchini di Grado e Aquileia.
Calar le braghe dice Tofani vuol dire addio per sempre ai nostri traffici, alle nostre barche, ai nostri pastini viniferi, a tutto il nostro vendere e comprare e allora addio Trieste sempre pacifica e domestica. Calar braghe o tirar su cotole, questo parlar dice Corvo Bonomo non esiste nel mio lessico parlar, Trieste e d'intorni non devono essere terre di nessuno per ruberie e altre azioni manigolde. Io vi dico e questo lo dice Corvo Bonomo col dito alzato come una piccola daga, io vi dico che noi abbiamo bisogno di un protettore che ci protegga tanto dai sanmarchini quanto dai patriarchini ma questo protettore deve solo proteggerci e mai farla da padrone.
Sì sì dice Basejo, Corvo ha ragione il suo ragionar è sapienza e buonsenso, sì sì, dice il giovane Argento, Corvo ha ragione abbiamo bisogno di un protettore non di un padrone, uno che ci protegga contro le masnade dei leoni alati e degli sgonnellanti patriarchini tutti incenso e frode. Io penso dice ancora il vecchio Corvo che un buon protettore io lo vedo nel duca Leopoldo d'Austria ch'è uomo con la testa ben incollata sul collo e sulle spalle, la mano tesa senza guanto e con le gambe ben piantate in terra e stivalate alla bulgara in speroni d'argento.
Tutti bevono ancora un bicchiere di vino e lo beve a piccoli sorsi anche Corvo e poi senza che nessuno si accorge s'addormenta e par morto come se fosse già incielato.
Sogna quietamente sogna e sul suo bel viso si pittura la calma, la pazienza, la benevolenza, la concentrazione, la gioia.
Corvo Bonomo sogna e deve sognare sogni in mantello d'oro perché in certi momenti la sua faccia è tutta interiorità come chi riposa guardando il cielo in un campo di grano di color luna d'agosto.
Corvo, il buon Corvo Bonomo si trova davanti ad una scala e non capisce se questa scala è posta in banda, in palo, s'è sostenuta o appoggiata; comincia a salire la scala tutta color perla di mare proprio come la sua barba e lui comincia a salire piolo su piolo e questi pioli sono impazienti con polvere di luna e devono portare ai cieli cristallini e poi ai cieli d'Olimpia.
Corvo nuota tra le nuvole; quelle a pecorelle, quelle barcone, quelle procellose, quelle d'uragano e quelle poi a tutto riposo nuvole a rossore.
Hò, hò dice Corvo anche i venti mi conoscono e mi salutano e per primo lo saluta quello magnifico Maestrale, che soffia caldo da nord est, lo saluta il Ponente e suo cugino il Ponentino e poi il Greco ma quello che purifica l'aria di Trieste e rallegra e intenerisce il cuore di Corvo è il vento impetuoso della Bora che fa gonfiare le onde e le vele e fa cantare e ballare le bandiere di tutti i colori del mondo, la Bora che fischia, che urla, che ulula, che canta, che ronfa, che soffia gagliarda, che refola il cuore di Corvo Bonomo, la Bora, la Bora, la sua cara comare siora Bora.
Continua a salire Corvo con dignità propria della sua “casada” quando uno stormo di “garruli di Boemia” lo rallegrano con canti di cingallegre che il vecchio chiama alla triestina “parussole”; subito dopo ecco davanti ai suoi occhi un triangolo nero schiamazzante e gracchiante di corvi che lo salutano come loro gran patron e parente nostro e sbattono le ali e creano un vento che sventola la barba sua come una bandiera in campo pacifico.
Arrivato Corvo all'ultimo piolo, ecco, dice dentro di lui. Sono in un prato incredibilmente verde, non troppo grande ma neanche troppo piccolo un prato insomma a misura giusta d'uomo.
In mezzo al prato un trono da imperatore tutto lingue di fuoco in gloria di bengala e sul trono un uomo in figura di sole.
Corvo Bonomo lo guarda e capisce subito ch'è il gran buon dio Triopa fa un piccolo inchino e dice: sono contento di conoscerlo di persona per dirle il mio grazie a nome di tutta la triestinità per quanto avete, signor dio Triopa, fatto per la città di Trieste che così ricorda il vostro nome.
Triopa lo saluta agitando le braccia luminose come raggi tiepidi in riposo sui pastini che fanno il buono vino e dice: vi ho voluto aiutare perché eravate e lo siete anche oggi, bravi, e pieni di iniziative e buona volontà di lavorare. Per proteggervi e per aiutarvi ero venuto da lontano, ho fatto quello che ho fatto ma oggi so che per vivere sempre più in grande nel futuro dei tempi voi avete bisogno d'un protettore che non diventi un padrone.
In verità delle verità nient'altro che verità dice Triopa io ti dico saggio Bonomo che un protettore per la vostra gran bella e dolce città non può essere che il signor duca Leopoldo il meglio che potete trovare.
E Triopa spalanca un grande portone e dice a Corvo: guarda osserva quella che sarà la città con il correre del Tempo sotto gli sguardi benevoli della Casa d'Asburgo.
Corvo guarda e meraviglia delle meraviglie vede una Trieste meravigliosa mille volte più grande di quella dove lui beve nel suo nautilus il vino di pronta beva.
Una Trieste piena di mare e sulla sua schiena tutto un pieno di navi che arrivano, che partono e tutte in gran pavese per i porti del mondo con nelle stive le “robe” che fanno bella la vita e gonfia la borsa di svanziche.
E Corvo non si stanca di guardare questa Trieste in corsa col Tempo piena di stregonerie e d'incanti e tante case alte dalle persiane bianche, con strade e piazze piene di gente di pelle di vari colori e tutte a lavorar sul mare e su la terra, nei fondachi e nelle botteghe a fabbricar gli oggetti che fanno bella e comoda la vita.
Corvo è tutto un tremar d'emozioni e la sua barba si agita come se fosse un'ala di cherubino in nervi.
Corvo improvvisamente sentì un gran rumore era Triopa che aveva chiuso il portone, gli parve di precipitare anzi di rotolare lungo la scala dai pioli impastati con polvere di stelle e si trovò seduto sulla sua sedia e la prima cosa che fece fu questa d'ordinare un poco di vino per tirarsi un poco su.
Tutti lo osservavano pieni di curiosità e Corvo Bonomo dice: sì ho sognato un sogno pieno di felicità e di miracoli, ma ora che ci penso era un sogno ma un sogno fortificato di realtà o forse meglio una realtà fatta sogno.
Nel gran cameron tutto è silenzio e Leo e Burlo dicono: Bonomo racconta e tutti gli altri fanno coro di racconta racconta e Corvo Bonomo comincia a raccontare: sono salito con dignità una scala che sembrava quella di Giacobbe senza angeli ho visto e parlato con Triopa, ho visto corvi ho visto “parussole” poi il caro buon dio Triopa che la sa lunga su di noi e anche dopo di noi mi ha fatto guardare a portone spalancato quello che sarà Trieste dopo che il Tempo avrà corso per secoli se noi ci faremo proteggere dagli Asburgo in rappresentanza d'oggi dal duca Leopoldo che abita a Graz. Ho visto e ben visto questa nostra Trieste piena di gente dalla pelle di vario colore, ho visto muoversi grandi bastimenti che andavano avanti senza vele ma solo con il fumo come fossero vulcani, ho visto robe da apprendisti stregoni insomma ho visto una città che tutti dicevano è l'ombelico del mondo.
O mia, anzi nostra, Trieste conclude Corvo Bonomo mia futura grandissima e coccolissima città con il tuo mare celestino ed il tuo Carso tutto calcare bianco come il mantello d'una fata celtica. Per tutta la mia vita, avrò di questo mio sogno uno scrigno tutto di memorie su lastra di marmo.
Signori delle “casade” concludeva Corvo Bonomo senza pensamenti, senza esitazioni subito via a Graz dal duca Leopoldo per pregarlo di volerci proteggere e difendere contro le prepotenze dei sanmarchini e le mascalzonate dei patriarchini autentici farabuloni.
Tutti risposero di sì presto a Graz dal signor duca Leopoldo.
I donzelli corrono a tirar fuori dalle stalle i cavalli a sellarli e a preparare le robe per il viaggio; anche i balestrieri attenti ad ingrassare le corde delle balestre.
Anche i cani vollero seguire i padroni e tutti festosi con le code ad antenna e pieni di morbin saltavano abbaiavano facevano spettacolo di canizza ch'è sempre spettacolo di grazia e d'armonia.
Salirono a cavallo e Corvo Bonomo sul suo ginetto guidava il drappello lungo le strade cittadine e la gente salutava e diceva tornate presto con la protezione del duca in pergamena.
I cavalli andavano al passo ma appena usciti dalla porta di Donota un colpo di speroni e via al trotto e poi al galoppo e poi ancora di carriera come se andassero alla carica guerresca in campo turchesco.
E trotta e galoppa e galoppa e trotta eccoli nella verde Stiria benordinata, tutta pomifera, tutta luppolo e orologi a cucù.
Entrati a Graz i tredici smontarono dai cavalli e legarono le bestie tutto fumo di sudore ai grandi anelli e batterono alla porta del duca Leopoldo, che subito accolse i triestini con dignitosa ma amabile cordialità.
I rappresentanti delle casate e dei triestini fecero un piccolo complimento al signor duca e per primo parla Giuliani: signor duca Leopoldo, dice il Giuliani, noi triestini siamo gente di poche parole, ma di molti fatti perché una ne pensiamo e cento e qualche volta anche mille ne facciamo; ora signor duca dalla bocca del nostro vecchissimo Corvo Bonomo lei sentirà quello che deve sentire.
E Corvo Bonomo dice al duca, che in quel tempo non aveva ancora il titolo d'Imperatore e attorno al colletto il Toson d'Oro lucente come un piccolo sole, quello che doveva dire per quanto riguarda la protezione e la padronanza. Quando il Bonomo finì il discorso il graziosissimo duca rispose: bene, benissimo voi avrete la mia protezione e quella della mia casa escluso la padronanza e fece chiamare dai servi il suo camerario che fungeva anche da segretario e da cancelliere.
Quest'uomo dalle tre cariche era il libero barone Miro Tonkovic croato ma di origine morlacca, di costumi dalmati cioè aveva occhi tutto mare e gambe forti per il monte.
Il barone Tonkovic arrivò subito e cominciò a scrivere con la sua bella calligrafia onciale quello che doveva scrivere per volontà del duca e dei rappresentanti di Trieste non ancora ombelico del mondo come la chiamerà secoli dopo un poeta muscoloso che poetava in lessico triestino.
Il duca legge quello che il cancelliere aveva scritto e leggono i triestini e poi tutti sotto a firmare e a mettere sigilli e cordoni: il patto di volontaria dedizione è fatto.
Un patto veramente vantaggioso per Trieste tanto che lo storico istriano Giovanni Vergottini scrisse che con il patto di dedizione alla Casa d'Asburgo “la città riprende veramente la sua libertà d'azione politica e riacquista la pienezza delle proprie attribuzioni giurisdizionali...”
Trieste aveva bisogno di un protettore ma non di un padrone ed il protettore non padrone lo trovò in figura di sua grazia serenissima il duca Leopoldo d'Asburgo; e allora evviva tre volte evviva e aria per tutti.
Il patto di dedizione durò la bellezza di quasi sei secoli, Trieste fu proclamata città fedelissima e immediata all'Impero e gli Imperatori assunsero il titolo di “Signore di Trieste”, lo stemma di Trieste con l'alabarda d'argento ebbe la concessione del capo imperiale ch'è d'oro all'aquila bicipite di nero spiegata e linguata di rosso e coronata d'oro.
Sei secoli di fedeltà imperiale poi sparì nel 1918 in quella catastrofe che scancellò dal mondo il grande Impero umano e un ordine superiore decade ad un ordine inferiore, sparita ogni dignità personale e oggi si può contemplare con tragica angoscia il trionfo del “tumultus”, del disordine e della violenza.
Firmato il patto di dedizione tutti montarono a cavallo, salutarono in signor duca Leopoldo e ritornarono a Trieste a tutto galoppo.
In prima fila sempre sul suo splendido ginetto Corvo Bonomo con nella borsa le pergamene firmate e sigillate; diceva a Basejo che gli cavalcava vicino: Pacta sunt servanda e traduceva per gli altri che non sapevano la lingua latina: i patti devono essere osservati in modo scrupoloso.
E furono osservati e durarono seicento anni, seicento anni di scrupolosità.
Arrivati a Trieste stanchi per il gran cavalcare, tutti si diedero la buonanotte chiusero i portoni con sopra gli stemmi scolpiti dal mastro Kerpan da Nabresina e sognarono il duca Leopoldo e altri bei sogni tutti in mantello d'oro, mentre la guardia con lanterna e alabarda intona la vecchia cantilena: o buon dio Triopa prega per noi che il fuoco, i sanmarchini ed i patriarchini non ci tocchino né di giorno né di notte. Dormite tranquilli che fra breve batterà l'una. Il Tempo continua la sua corsa e arriva davanti all'Imperatore Carlo VI al quale Trieste pacifica e domestica elevò un gran bel monumento tutto in pietra bianca di Nabresina nella sua piazza più bella la Piazza Grande.
Carlo VI, padre di figlia unica di nome Maria Theresia, era veramente un grande Imperatore con idee, per dirla alla moderna, un tantino socialiste; credeva e aveva ragione di credere che per arricchire lo Stato la via più rapida era quella del commercio e dell'industria e soprattutto il commercio d'oltremare.
E soprattutto le ricchezze d'oltremare potevano nascere e svilupparsi e ingrandirsi solo con la creazione di un grande porto di mare e dopo gran pensare questo gran porto di mare, anche su consiglio del principe Eugenio von Savuà, fu Trieste.
L'Imperatore fu ben contento del consiglio del principe Eugenio e relativa scelta e subito si mise negli affari e fondò con sede generale a Vienna “L'Imperial Privilegiata Compagnia Orientale” e comprò tante azioni della Compagnia pensando soprattutto al futuro della sua bella e intelligente figliola e piena di grazie l'arciduchessa Maria Theresia.
Carlo VI vedeva lungo e vedeva largo e proclamò Trieste porto franco e lo proclamò a cavallo del suo lipizzano di nome Maestoso e fu tutto un batter di mani illiriche, italiane, greche, turche, alemanne, ebraiche, armene, francesi, inglesi, olandesi per non parlar delle mani fredde del nord.
Tutti avanti e sotto a lavorar col commercio, con l'industria, con l'armamento navale, con le proviande di bordo, con i cantieri, coi fondachi in odor di spezie e di coloniali e brigantini e golette e velieri in trionfo di vele a sbarcare e imbarcare merci e merci per tutti i porti del mondo.
Le allegre bandiere in carneval di colori sventolano su Trieste ma la bandiera più allegra è quella che sventola in allegria d'affari sul Porto Franco di Trieste.
Harappa harappa, anche gli Imperatori muoiono e muore Carlo VI per aver mangiato un piatto di funghi, piatto, come disse Voltaire che cambiò il destino d'Europa.
Lo cambiò e non solo per l'Europa ma anche per Trieste e lo cambiò in una piramide di tutto benessere.
Maria Theresia diventata Imperatrice aprì gli occhi alla realtà del buongoverno e subito pronta con le sue riforme, le famose riforme teresiane, piene di illuminismo e di libertà.
E avanti Trieste con il suo gran porto, con i suoi cantieri, con i suoi arsenali e con il suo navigar e commerciar con l'oltremare.
La città è veramente e genuinamente una città sovranazionale con forti influssi di civiltà mitteleuropea e italiani, tedeschi, slavi, greci, turchi, ebrei, inglesi, francesi e americani lavorano per l'interesse personale e per quello dell'Impero.
Nel 1821 l'assessore a Trieste Giuseppe de Brodmann scriveva nelle sue “Memorie” che non si “azzardava di analizzare l'indole del popolo triestino, tra il quale se regna un nodo sociale, questo nodo non è solo che mutuo interesse delle negoziazioni commerciali perché in un popolo d'italiani, tedeschi, greci, slavi, levantini, arabi, africani, non può svilupparsi un carattere nazionale dominante”.
Fintanto che il delirio e le falsità dei nazionalismi non prevalsero la città ponte, la città del marinaio Sinbad, la città delle spezie, dei cantieri e delle locomotive sbuffanti sui grandi ponti di ferro verso l'immenso hinterland dell'Impero Trieste cresceva a vista d'occhio e il sogno di Corvo Bonomo giorno su giorno si trasformava in armonica realtà e anno su anno Trieste sempre più ombelico del mondo.
Questo suo crescere lo si doveva sì al sogno di Corvo Bonomo ma soprattutto a Maria Theresia che fu per dirla con Alexander Mahan “uno dei più attivi e sovrani che il mondo abbia conosciuto e seppe contemplare il suo compito con un entusiasmo e una serenità di spirito mai superati. Le sue forze avevano dell'incredibile ma ella le sapeva impiegare in tante cose diverse che la sua resistenza può essere considerata meravigliosa”.
Per distendersi andava a consumare una merenda con gli amici al “Peperl” nel Prater e poi via subito a lavorare davanti allo scrittoio colmo di importantissimi e ordinatissimi documenti dello Stato Imperiale.
Sorrideva sempre questa meravigliosa creatura e lavorava fortificata da un delizioso senso viennese dell'umorismo.
Fu chiesto ad un triestino da un greco di Salonicco e da un bulgaro del Perin se questa mamma imperiale di Trieste avesse un monumento ricordo ed il triestino rispose: nessun monumento perché tutta la città stessa è il più bello ed il più giusto monumento a Maria Theresia.
Il greco di Salonicco ed il bulgaro del Perin erano venuti a Trieste come tanta altra gente di mezzo mondo per apprendere le scritture mercantili e perché si “dirozzassero” nelle operazioni più materiali del traffico. I soldi dopo tanto lavorare e faticare molto spesso formavano considerevoli fortune ed il benessere era diffuso con molto equilibrio da ago di bilancia farmaceutica.
Il porto giorno su giorno sempre più florido e cresceva in ragione diretta degli infortuni che colpivano altri porti d'Europa come i blocchi di rappresaglia o gli assedi di guerra.
Navigare per i triestini voleva dire vivere e già nel 1816 due brigantini, queste rondinelle del commercio, partiti da Trieste furono i primi a passare il Bogaso in Egitto e per Damiata fino al Bolacco.
La colonia illirica a Trieste manteneva in attività ben centodieci bastimenti e armatore era il signor Giovanni Kurtovic che nel periodo di diciotto mesi guadagnò con questi suoi brigantini la somma di fiorini 1.139.747 una somma per quel tempo vertiginosa; così a Trieste si facevano gli affari e la vita era degna di essere vissuta. Arsenali e cantieri varavano e scivolavano in mare le navi tecnicamente perfette, belle e quelle destinate ai passeggeri piene di lusso e signorilità.
Gli artefici di tante bellezze e di tante perfezioni erano noti e apprezzati e ricercati da tutti gli arsenali e cantieri del mondo. Dopo il lavoro di mente e braccia distensione e riposo e “ciacolar” e leggere nei cari e quieti caffè triestini veri primi cugini dei perfettissimi caffè viennesi.
Torno ai tavolini di marmo con base di ghisa argentata le belle donne di Trieste, alte e di gamba cavallina, spiritose, amorose, emancipate, affettuose e sportive chi buttate al biondo, chi al bruno e chi al lucente corvino; ma parlare o scrivere di queste creature è come voler portare nottolo ad Atene o violini a Vienna.
La città piace a tutti e piace a Scipio Slataper (il suo cognome in croato vuol dire penna d'oro) e sottobraccio alla sua donna Gioietta si ferma prima in riva Grumula poi sotto la Lanterna e dice; “Io vado per le strade di Trieste e sono contento che essa sia ricca, rido dei carri frastornanti che passano, dei tesi sacchi di caffè, delle cassette quasi elastiche dove fra trina e veli di carta stanno stanno stivati i popputi aranci, dei sacchi di riso sfilanti dalla punzonatura doganale, una sottile rotaia di bianca neve, dei barilotti semisfasciati d'ambrato colofonio, delle balle sgravianti di lana greggia, delle botti morchiose d'olio, di tutte le belle, le buone merci che passano per mano nostra dall'Oriente, dall'America e dall'Italia verso tedeschi e boemi.” Conclude dando un bacio a Gioietta: “Ora l'Adriatico è nostro.”
Ma Trieste piaceva anche al poeta triestino di lingua tedesca Theodor Daubler, che alla sua città natale dedicò più di una poesia: “Presso un azzurro mare incantato io venni al mondo” e poi ancora “In questa città cominciò l'essere mio a costruire la sua torre d'enigmi”; e piaceva anche al romanziere triestino di lingua slovena Vladimir Bartol con la sua raccolta di schizzi e bozzetti a sfondo psicanalitico.
Perché Trieste era e dev'essere una città ponte una città d'incontri delle tre grandi culture: italiana, slava e tedesca.
E piaceva al gran rabbino triestino signor Emmanuel Porto autore di un libro pieno di scienza e dal titolo il Porto Astronomico che gli valse da parte dell'Imperatore la medaglia d'oro. “Pro Virtute et Merito.”
E Trieste piaceva anche al francese Valéry Larbaud perché diceva “Cest une ville cosmopolite” e concludeva “c'est vraiment Trieste, et non Venise la capitale de l'Adriatique”.
Ma Trieste piaceva più di tutti a Charles Nodier l'inviato di Napoleone nelle “Provinces Illyrienes” per fondare e dirigere la Lubiana il giornale “Télegrahe Officiel des Provinces Illyriennes” redatto in quattro lingue: francese, italiano, tedesco e lingua illirica.
Prima di arrivare a Trieste, Nodier passa per Ginevra, per Torino, e arriva sulle rive della Brenta cariche di palazzi che minacciano il cielo e poi a Venezia dai canali immensi e dalle chiese cristiane che si direbbero costruite dai turchi e poi via presto a Trieste una città ch'è l'immagine del mondo.
A Trieste è ospite nella villa del conte Luigi Serini, nelle Dalmazie lo chiamano grof Zrinski e in quel tempo chi era proprio distinto abitava nel distretto di Sant'Andrea e dato che il conte Serini era una persona estremamente distinta non poteva aver villa che solo nel distinto distretto di Sant'Andrea.
Curiose ma belle le usanze dei distinti abitanti di Sant'Andrea di far sventolare sui tetti le bandiere delle loro nazioni di origine nei giorni festivi e nelle ricorrenze solenni.
Questo signor conte Serini era persona di idee molto “franciose” ma per quanto “francioso” non era assolutamente d'accordo che “Le peuple francais reconnaì l'Etre Suprème et l'Immortalité de l'Ame”.
Su questo, il signor conte Serini non era per niente d'accordo perché diceva le religioni sono nate dalla paura e l'uomo ha creato a sua somiglianza Dio e non viceversa e siccome io sono un uomo sono perciò anche Dio e per di più con corona, cimiero e lambrechini.
In casa Serini lo scrittore elegante, l'incorreggibile dissipatore Charles Nodier scrisse il suo romanzo in cornice triestina Jean Sbogar ch'è la storia romanticissima di un brigante gentiluomo che rappresenta la forza e la ribellione sotto le false spoglie di principe Lotario.
Charles Nodier ricorderà sempre nella sua bella casa di Parigi questa Trieste “ch'è piena di una grazia inesprimibile, un vero canestro di fiori freschi come la primavera che posa su di uno scoglio”. Ed il canestro di fiori fioriva ogni giorno di più perché le divinità marine erano innamorate di questa città dalle bianche persiane e dai pastini in profumo di vendemmia.
La popolazione aumentava di anno in anno grazie anche ai vari decreti teresiani in favore del Porto Franco che non voleva dire ricovero di falliti o di avventurieri ma asilo a quanti avevano voglia di far bene e ben lavorare.
C'era un ordine che non permetteva che gli “esteri” esercenti la mercatura potessero venir molestati negli “averi” e nelle “persone” per “debiti” contratti fuori dallo Stato e aggiungeva quest'ordine che “non si doveva arrestarli o punirli per alcun delitto commesso fuori dalle Province Austriache” ed è probabilmente da questo ordine la nascita del detto popolare “Triestin mezzo ladro e mezzo assassin”.
Curiose e interessanti certe domande di “asilo”; eccone una tra le tante tirata fuori dalla polvere dei polverosissimi “Archivi di Stato”.
“Infinite domestiche disgrazie e la recente fatalità incontrata di rendersi ad un tratto insolventi parecchi dei suoi creditori hanno obbligato il sottoscritto a non poter 'in giornata' soddisfare i suoi debiti e ad abbandonare, per evitare molestie, la propria città. In tal dolorosa circostanza implora che gli venga accordato il 'Porto Franco' che egli tanto più spera di ottenere in quanto che in mezzo alla sfortuna ha il conforto di non avere debiti alcuni nei felicissimi Stati della Monarchia”.
Questa era Trieste, città dalle persiane bianche come le ali dei gabbiani, possesso immediato dell'Impero con il suo Imperatore dagli occhi azzurri come la porcellana e “Signore di Trieste”.
Oh, Trieste, città piena di mare suadente e incantevole, tutta prore spaccamar e riccioli d'onde fino alle Americhe del Nord e quelle del Sud e ancora spaccaonde sulle coste del Malabar e del Coromandel e ancora spaccaonde della Baia del Bengala e della Penisola del Gange.
E nelle panciute stive tutte ben ordinate e stivate seterie, porcellane, droghe, ambra, avorio, e panzucchero di Cuba e ancora piante rare, tabacco color barba di sultano e pelli pregiate di tigri, di pantere e di leopardi per la felicità delle belle donne imperiali.
Lavorare, costruire, commerciare e sempre ancora lavorare, così è fatta la vita triestina, e nei tempi antichi il signor Ulrich Hutten in visita all'emporio, vedendo tanto lavorare, disse al suo amico Melantone “Vivere è gioia”, e aveva ragione, perché per i triestini lavorare voleva dire vivere con gioia.
Un gran daffare in tutto il mondo, con questa Trieste, e in modo particolare per i signori Palmer dell'Agenzia di Nuova York e per il signor Mehemet Alì a Panama e suo cugino a Suez.
Ma a “ buona o a varare vapori e a far “zoghi” di borsa a fare insomma “comerzi e boni afari” nei “scritoj” di Agenzie Marittime o di Import-Export; ma si faceva anche della gran bella cultura, si leggeva molto e in molte lingue, si faceva musica tanto classica che di divertimento, e tutti sapevano quello che d'interessante nasceva a Vienna, a Parigi, a Milano, a Londra a Zagabria e a Monaco di Baviera.
E questo perché la città è stata sempre una città di cultura mitteleuropea per non dire cosmopolita.
Solo in questa atmosfera potevano nascere uno Slataper, uno Svevo, un Saba, un Giotti.
E la gente di buonsenso dice: ma guarda un po' questo Ettore Schmitz che vende colori e vernici segrete alle navi di Sua Maestà Britannica e con un colpo di bacchetta magica ti diventa il romanziere Italo Svevo, uno scrittore dai bottoni duri di marca europea.
E la gente di buonsenso continua a meravigliarsi e dice: ma guarda un po' quell'Umberto Poli che vende libri e stampe antiche e ti salta fuori come un misirizzi autore di un Canzoniere dove da autentico poeta rassomiglia Trieste ad un ragazzaccio con le mani troppo grandi per regalare un fiore. Che poi quell'Umberto Poli si firmasse Umberto Saba, è marginale.
E dice ancora questa gente di buonsenso: ma guarda un po' questo impiegatuccio mezze maniche di Virgilio Schoenbeck, con moglie russa, che scrive poesie tutte colori e capricci in dialetto triestino e si firma Virgilio Giotti. Guarda un po' quante sono le sorprese della città. Ahinoi, nei cieli imperiali si sente il trottare dei quattro cavalieri dell'Apocalisse con sulle loro bandiere le parole tutte sangue che sono stultitia, tumultus,intolleranza, fanatismo, delirio, odio, massacro.
Dicono i gialloneri udendo il trotto e guardando le bandiere tutte sangue: ecco, dall'umanità scendiamo alla nazionalità e alla bestialità, un ordine superiore decade a un ordine inferiore. La guerra, il rombar dei cannoni, i morti, l'urlar dei feriti, fuoco e rovine.
L'Impero sconfitto, l'Impero annientato, l'Impero sparito dall'Europa. L'ultimo Imperatore voleva la pace, era disposto a fare grandi concessioni ai nemici dell'idea imperiale, ma era una voce che gridava educatamente nel deserto. L'Imperatore cercava di salvare il salvabile, e di salvare specialmente la sua diletta Trieste. “La città di Trieste” egli decreta, “sarà nominata Città Libera Imperiale, verrà dotata di un'Università, e otterrà un nuovo statuto municipale che, mantenendo i diritti di piena autonomia di cui essa attualmente gode, assicurerà pure il carattere italiano della città. La zona attuale del Porto Franco sarà mantenuta e in caso di necessità estesa”. Ma la sua voce è solitaria, come solitaria e sorda è la voce del socialista triestino Valentino Pittoni, che nell'ultima seduta al Parlamento di Vienna, l'undici ottobre del 1918 proclama: “Nessuna annessione, nessuna indennità di guerra, il Partito Socialista e le organizzazioni operaie di Trieste ritengono che Trieste debba rimanere completamente indipendente sotto il controllo della Lega delle Nazioni, con una costituzione veramente democratica fondata sul diritto di voto generale uguale e diretto e proporzionale, senza distinzione di sesso, e che vi vengano uniti i territori esclusivamente o prevalentemente italiani del Friuli e dell'Istria. Noi non vogliamo che si decida di noi senza di noi, né qui né altrove”.
Il discorso viene subito stampato sul quotidiano triestino Il Lavoratore con un titolo ch'è tutto un programma: Per l'assoluta indipendenza di Trieste. Ma anche questa voce, che è voce di popolo, è clamantis in deserto, i politici non hanno coscienza geografica, sono miopi e hanno il cervello in bussola senza ago. La grande città ch'era vestita di bisso e di scarlatto e adorna d'oro e di pietre preziose e di perle, una cotanta ricchezza è stata distrutta in un momento: e questa era la voce di Giovanni che come l'imperatore aveva il titolo di Apostolico.
Requiem Aeternam.
L'antica Austria sovranazionale è stata scancellata dalla carta d'Europa ed al suo posto ecco nascere, per volontà e ordine dei politici in girotondo al tavolo di Saint-Germaine, la Repubblica Austriaca abitata da sette milioni di austro-tedeschi.
Primo Presidente il socialista dottor Karl Renner, già antico funzionario imperiale che subito modifica lo stemma e la bandiera, poi ancora fa delle piccole riforme e altre bagatelle come quella di abolire tutti i titoli di nobiltà.
Ma ci sono ancora dei gialloneri con voglie burlone come il conte boemo Adalberto Sternberg che si fa stampare dei biglietti di visita così concepiti: “Adalberto Sternberg della Casa dei conti Sternberg nobilitato da Carlo Magno snobilitato da Carlo Renner”.
Anche il boemo Sternberg amava Trieste e veniva spesso nella fedelissima città immediata all'impero per far visita al suo amico, l'arciduca triestino Lodovico Salvatore, nella sua bella tenuta a Zindis vicino a Muggia.
La personalità di questo conte Sternberg è passata nella letteratura mondiale grazie a Hugo von Hofmannsthal che lo prese come modello di signore feudale dell'opera Der Rosenkavalier, sotto il nome di barone Ochs von Lerchenau.
E qui la nostra storia, anzi il nostro fabulieren, termina come l'avrebbe terminata il signor Andersen, fertile d'immaginazione e maestro nel raccontare storie e fiabe.
Stretta la foglia larga la via – Dite la vostra ch'io dico la mia. Ma se qualcuno preferisce una licenza alla maniera del conte Carlo Gozzi tutto augellinbelverde, tutto pomi che ballano e acque che cantano, eccola: ...forse di questa favola contenti non sarete: ma giacchè l'abbiam fatta per carità battete.
Battete, naturalmente le mani, e giù il sipario.