sabato 11 aprile 2015

Un Porto Piccolo piccolo Cronache di normante amministrazione


Certo seducono, queste giornate calde in pieno inverno. Starsene al sole così, in maniche corte e persino a torso nudo, alle due di una domenica di gennaio, a noi che abbiamo memoria prossima di quando ancora l'inverno era inverno, sembra un fatto eccezionale. Sappiamo che non lo è più, eccezionale. Ma appunto, questa esperienza come di soglia seduce, quasi.
Ci si crogiola su un ristretto terrazzo ghiaioso in cima a uno sperone, nel mezzo di una parete di roccia, tra un'arrampicata e l'altra lungo il tratto di parete soprastante. Anche arrampicando le dita provano una sensazione di tepore nello stringere la roccia riscaldata da un sole pericolosamente intenso.  

È particolare, l'ambiente in cui ci troviamo: al centro di una parete alta fino a cinquanta metri, lunga mezzo chilometro, scavata in tempi di guerra nella parte occidentale della baia. La roccia scavata è a tratti franosa, qua e là trattenuta in grandi reti di ingaggio. Alla fine della baia la parete si collega a un promontorio di roccia naturale che si spinge sul mare interrompendo il grande spiazzo interrato ai nostri piedi. Oltre il promontorio una rinomata scogliera a picco sul mare, da qui non visibile, si estende fino al castello dove dimorò e poetò Rilke.
Il grande spiazzo ha visto avvicendarsi, negli ultimi sessant'anni di pace, varie soluzioni balneari più o meno felici che hanno lasciato tracce sparse, compromessi più o meno accettabili tra libero usufrutto, stabilimenti a pagamento, club velistici. Residui concreti e ricordi permettono di riconoscere il caro tessuto ancora misto di struttura e disordine dentro cui si sono dipanati i fili dell'infanzia e della giovinezza della nostra generazione. Lo spiazzo, attualmente adibito a parcheggio estivo, ora è vuoto. D'inverno resta chiuso alle automobili il cancello d'entrata, là in fondo a sinistra verso il cuore della baia. File di catenelle appese a pali si intersecano sulla superficie di ghiaino ed erbacce, per assegnare un ordine alle automobili che in alta stagione affluiscono in massa. Ora, ne scandiscono l'assenza.
Ambiente ibrido di natura abusata e tralasciata, infuso di sole caldo in un inverno di cui restano ormai solo il vuoto del piazzale e la luce così obliqua sul mare fermo. Così strano, che quasi vi si accordano le dissonanze e le esalazioni emesse dal grande depuratore in funzione da qualche decennio qui alla nostra destra, nell'angolo dello spiazzo tra la parete intagliata e il promontorio di roccia naturale. L'orecchio, l'occhio, l'olfatto, il gusto, finiscono per assuefarsi, e su tutto si stende come una patina di consueta sintonia. Così da una vita, col rischio crescente che anche il più smaccato impatto ottenga automaticamente dimora nello stordimento dei sensi.
E già il nostro sguardo, sedotto dal prematuro riverbero, stava passando torpidamente sopra la bella novità: una recinzione di legno alta due metri che interdisce l'accesso al mare lungo tutto il grande spiazzo. Ma per fortuna noi, qui sul terrazzo, siamo un noi, e uno di noi, fratello meno intorpidito, osserva, nota, indica, addita. Bestemmia. Benvenuta bestemmia, che ci aiuti a sputare via il velo dietro cui fervono instancabili le pratiche cangianti dell'enclosure. Ma a proposito, a proposito. Ora il nostro sguardo bestemmiatore si spinge con maggiore acutezza verso l'altro estremo della baia, dove gli avamposti di un nuovo agglomerato ritagliano una loro accattivante geometria, là dove c'era, là dove c'era?
Lo sappiamo: il progresso, purosangue della scuderia di quelli che contano, che da tempo ci ha assoggettati al gioco della cavallina e con diplomatica prepotenza ha imposto la regola per cui la cavallina siamo sempre noi, in un suo lunghissimo balzo sembrava essersi avvitato in interminabili controverse peripezie, lasciandoci illudere che avrebbe trascurato la baia ancora per un po'. Ma sapeva bene quel che faceva, e districandosi dalle ultime controversie è andato ad accucciarsi là, dove attende fiducioso di sedimentarsi nel campo visivo.

Maledetti paraocchi.
Ce ne stavamo qui a vivere la nostra vita di cavalline, ogni tanto una scalciata, una sgroppata, un'impennata, ma in sostanza tirando a campare, a capire e compiere dubbiosi il nostro ufficio, tra

bradi svaghi e storie d'amore, ed ecco: là dove c'era l'inselvatichito abbandono di una cava dismessa, il progresso, fattosi concreta silhouette, ci invita ad ammirarlo, a raggiungerlo, a percorrerne le lastricate calli. Ebbene andiamo a vederlo, questo magnifico progresso.
Ritornando verso il centro della baia, nei pressi del cancello chiuso il nostro sguardo risvegliato dalle bestemmie vede con rinnovata acutezza le rovine di un magnifico albergo di epoche belle in preda ad annosa agonia. Ingoiato dalla vegetazione selvatica, l'albergo si va disfacendo con secolare aristocratica naturalezza al cospetto di passanti disattenti, calcinacci e travi di solai tonfano languidamente tra rovi e arbusti, come lo sgretolarsi di un tempo remoto nella clessidra che scandisce la sentenza di un definitivo distacco. Epoche belle, quando l'albergo e la baia erano meta di vacanze per élites di gusto.

Ora, intendiamoci, le élites sono sempre state nostre nemiche, versioni teatrali di oligarchie padrone e sfruttatrici. Solo, nell'eterna applicazione della loro ferrea legge, sono terribilmente mutate, così sopravvivendo, anzi meglio, sopravvivendoci nel senso più brutale del termine: vivendoci sopra. Quelle di oggi, quelle della cavallina dall'altra parte della baia, per nulla disattente, per nulla passanti, scrutano con attenzione la clessidra, in agguato dell'attimo perfetto per rivalorizzare quest'altro pezzo di oblio.

Ma andiamo avanti.
La parte centrale della baia è quella forse meno soggetta a rivolgimenti, rivalutazioni, rivalorizzazioni: due corsie alberate di parcheggi tra il porticciolo, uguale a se stesso negli anni, e la costa boscosa, a ridosso della quale baracche e baretti chiusi attendono in limaccioso letargo i bagnanti estivi. Miracolo di trascuranza dovuto forse al vicino furore, da cui ci separa ancora un antico stabilimento balneare: un ingresso di arcate in cemento di era fascista, spogliatoi discreti, un ristorante ora chiuso, un'ampia spiaggia di ghiaia piacevolmente smussata.
Questa parte della baia è sempre stata un po' più curata rispetto a quella dalla quale proveniamo, più bene, oltre che facilmente accessibile tutto l'anno. Si capisce che sia frequentata anche d'inverno da una certa quantità di anziani e famigliole con abbigliamenti da quattro passi dopo il pranzo, una passeggiatina digestiva che generalmente terminava poco più avanti, dove iniziava il comprensorio dell'enorme cava in abbandono, una zona di pontili semi-diroccati, piccole calette e una vegetazione che si stava lentamente riprendendo i suoi spazi. Costa dei barbari, si chiamava.
Ma non è più il tempo dei barbari abbandoni. La ferita inferta all'ambiente dalla cava, dicono giornali, è stata finalmente sanata. Ora tutti noi gente comune possiamo proseguire senza temere intoppi in ferrivecchi o buche, o gentaccia imbarbarita che si passa gli spinelli attorno a qualche fuoco. E infatti stavolta siamo veramente tanti. Questa non è una semplice promenade, è un pellegrinaggio. Siamo una folla di gruppetti autonomi desiderosi di svoltare là oltre il piccolo promontorio: chissà quale smagliante scenario ci accoglierà. Siamo stretti tra il mare e la stradina carrozzabile intagliata nella roccia. Si potrebbe tranquillamente camminare anche sulla strada, ora vuota, destinata ad animarsi di automobili con l'arrivo dei futuri residenti, che però al momento sono al rogito, in promettenti percentuali sul totale delle locazioni disponibili, dicono giornali. Ma invece quasi nessuno procede lungo la strada, un po' per riflesso condizionato e sana diffidenza, un po' forse perché il robusto vigilante privato con vistosa fondina che si aggira davanti alla casetta per lui disegnata, mette in qualche modo in vibrazione, nei nostri animi civili, latenti corde d'ordine. Così, disciplinati pellegrini della domenica, procediamo lungo il marciapiede tra la stradina e il mare. Superato l'armato guardiano del paradiso che si aggira davanti alla casetta in sua dotazione, ci si apre alla vista la mirabile guarigione della ferita inferta.
Là dove c'era.
Che dire? Come rendere degnamente le portentose capacità autorisanatrici del sapiens? Parlare per metafore, o cercar di riportare fedelmente il quadro del piccolo porto?
Dal mare fin sul bordo dell'altopiano l'anfiteatro della cava è ricoperto di abitazioni, e mica una distesa uniforme, monotona: la fascia bassa attorno al porticciolo cuore del progetto, è tutto un sapiens intreccio di edifici che richiamano stili svariati, dal liberty al neoclassico al borgo antico, un
intersecarsi di androne, scalette, porticati, viuzze già battezzate e targate: Strada della baia, Le botteghe, I portici... Nomi suggestivi nella loro sconcertante ovvietà: la baia è una baia, le botteghe sono botteghe, i portici sono portici. L'urbanista qui ha superato l'obsoleta categoria del toponimo, qui luoghi e nomi vengono progettati e sfornati insieme, con fragranza di superficie antica. Come definire simile parto semantico? Ipertoponimo? Utoponimo? Urge un'orwelliana neolingua, che sappia docilmente assecondare l'affermarsi (anche in Italia, dicono giornali) dei neoluoghi.

La fascia alta dell'anfiteatro accoglie un alveare di appartamentini più contenuti, nonché smaccatamente squadrati: una moltiplicazione di moduli cubici si adatta al terreno scosceso.
Come, appunto, stretti punti di sutura a sanare ferita inferta.
In quell'area si prevedono chiaramente proprietari con la “p” minuscola i quali, oltre all'insistita cubatura modulare, dovranno adattarsi anche a essere un po' lontani dal cuore pulsante del porticciolo. Fino a un certo punto, naturalmente. Non crediate che i minuscoli saranno costretti ogni volta a scendere giù per la ripida Salita della torretta e salire su per la Salita alle mura, a meno che non ci tengano per questioni di fitness. Come abbiamo visto nel caso dei nomi, antico è bello, fuori, ma dentro... dentro ci sono gli ascensori. Del resto, per quanto riguarda la fitness, non sarà necessario sforzare le ginocchia. Con geniale trovata, in una parte della fascia alta i Progettisti – questi sì con la “P” maiuscola – hanno pensato di conservare il preesistente, e lungo il terreno brullo e scosceso, dagli alveari si snoda una specie di camminamento trincerato che con comoda passeggiata a mezza costa conduce a una postazione nella roccia, con un tocco di mimetismo che però si lascia notare e alletta. Un esclusivo centro benessere, dicono giornali, con vista mozzafiato. La stessa di cui i minuscoli potranno godere dai loro cubici abitacoli, a ulteriore compensazione per l'ascensorata lontananza dal porticciolo cuore pulsante.


Ma torniamo a noi.
Noi, dopo l'iniziale stupefazione, siamo colti da un senso come di vuoto che ci risuona dentro, che non trova parole se non in forma di sgangherate blasfemie, mentre le gambe continuano ormai fatalmente a condurci nel mezzo della massa di gambe pellegrine verso il sancta sanctorum. Un senso di vuoto che stona col pieno che ci sta di fronte. Ma noi certo esageriamo, forse basta lasciarsi riempire dai commenti del pellegrino alle nostre spalle, che con sicura sensatezza o fors'anche con diplomata cognizione sta spiegando alla sua compagna pellegrina cos'è che manca: semplice, manca ancora l'atmosfera del vissuto, un po' di tende alle finestre, qualche pianta, qualche pareo steso ad asciugare al ritorno dal mare, del resto è un villaggio di seconde case, destinato a ravvivarsi d'estate, anche nel porticciolo ora ci sono pochissime imbarcazioni, che certo fanno la loro bella figura, ma pensa, compagna pellegrina, pensa quando sarà tutto pieno, pieno, brulicante di equipaggi al loro rientro da una gloriosa veleggiata o da una roboante smotorata!
Ecco, che fortuna aver intercettato un così istruttivo stralcio di conversazione. Mentre il pellegrino e la pellegrina ci superano con passo ben più deciso, lo guardo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e penso: sapiens, almeno due volte.
Finalmente raggiungiamo la piazzetta affacciata sul porticciolo. Qui il movimento del pellegrinaggio si ingorga, si avvita su se stesso in un'infreddolita ammirazione del porticciolo e degli scorci, nell'attesa di riuscire a infilarsi in uno degli affollati tempietti per la celebrazione dei rituali. Attraverso le grandi vetrine si vedono i fortunati che celebrano, accompagnando caffè fumanti con dolcetti scelti da teche sapientemente illuminate, tutta roba fatta con ingredienti di qualità. Del resto qui si vorranno solo le eccellenze, dicono giornali.
Questa dunque è la meta del pellegrinaggio, qui i pellegrini, spinti delicatamente dalla Mano Invisibile del Mercato, all'insegna della libera scelta tra eccellenti concorrenze, si smistano, sorbiscono, si riscaldano un po' guardando oltre le vetrine dei tempietti il pittoresco scenario. Scenario no. Scenografia piuttosto. La progettualità trionfa apodittica, nel suo ardito dispiego di cemento foderato di lastre di pietra e intonaci da antico borgo adriatico, si slancia sopra la piazzetta in medievistico tripudio.
Nel freddo finalmente quasi invernale del sole declinante ci stringe più forte il senso di vuoto, e lo
sguardo bestemmiatore scruta i volti in cerca di qualche espressione che tradisca un affine disagio... Ma no, impera una diffusa consenziente meraviglia domenicale, la scenografia pullula di comparse in sintonia di umori e colori, che si aggirano beate per vicoli e portici, si sporgono incuriosite da balaustre e torrette nuove di pacca. Ci sono, lo sappiamo, altri torvi denigratori, sconfitti raccoglitori di firme contro l'innovazione e il progresso, ma qui oggi regna l'armonia. Impera, sovrana. È compiuto un superiore Disegno, nel quale critiche e mugugni sono cacciati negli angoli del quadro come frustrati diavoletti vinti dal Trionfo. In questa concordia ordinum, in questa celeste corrispondenza tra Progettisti e pellegrini, ci sentiamo in effetti un po' fuori posto, e lo sguardo cerca rifugio nel tramonto.
Prima di spegnere i suoi ardori prematuri nella sera di gennaio, il sole concede gli ultimi fulgori alle poche imbarcazioni del porticciolo, facendone spiccare due per taglia e contorni. Due belle proprietà di lupi di mare, i primi due a spingere il pionieristico acquisto oltre il rogito, i primi due proprietari di Portopiccolo. Sì, perché naturalmente il luogo ha già il suo bel nome, con la “P” maiuscola, modestamente. Ma a proposito, come si chiameranno i secondocasisti di Portopiccolo? Proprietari di grandi barche, partecipi di un grande sogno, secondoabitanti di un borgo che ambisce a mimare in un sol colpo secoli di insediamento, essi non potranno mica nomarsi Portopiccolini! Non scherziamo. Ci vuole un nome all'altezza, un nome rotondo... Ecco, perché non Portopiccoloidi?
Dopo averli degnamente battezzati, osserviamo dunque con maggiore attenzione le imbarcazioni dei due primi Portopiccoloidi, così da poterne ricavare qualcosa in merito al carattere. Sono entrambe dei bei pezzi da novanta, ma c'è un abisso tra i due generi. Abbiamo un bel motoscafone d'altura, una ventina di metri di scafo ben tornito, muscoloso, col muso aggressivo rivolto verso la piazzetta, una sorta di SUV del mare, che a velocità da crociera deve emettere un rombo robusto e maschio, sicuramente la versione diesel della voce del suo titolare, uno che non si scompone troppo quando si tratta di fare il pieno al suo bestione, uno che l'economia la fa girare, anzi meglio, la fa trivellare. Certo un gusto, uno stile in netto contrasto con le linee snelle dell'altra imbarcazione, ormeggiata opportunamente in modo da offrire il fianco ai pellegrini nella piazzetta. Quanto a virilità di misure e forme, non c'è storia: saremo sì e no intorno alla metà rispetto al trivellatore. Ma qui, signori pellegrini, siamo al cospetto di una barca d'epoca, classe millenovecentotrenta. E se sul telo protettivo del boma non fosse stampato in bella vista il leggendario nome del disegnatore – William Fife III, non so se mi spiego – basterebbe un'occhiata allo scafo slanciato, alle forme della prua e della poppa, per riconoscere quell'eleganza e quella bellezza che non hanno prezzo. O il cui prezzo, signorilmente, si tace. Vi chiedo uno sforzo d'immaginazione, signori pellegrini: figuratevi quando l'albergo dall'altra parte della baia riverberava ancora di bagliori post-crepuscolari di epoche belle, figuratevi lei che, varata di fresco, veleggiava in fronte a ospiti di riguardo, lei nata in anni feroci e prossimi a deflagrare per una seconda volta fatale, ma ancora in tempo per fendere le acque nell'illusione che il tramonto fosse quello del giorno, invece che del mondo. Chissà da quale oscuro ricetto avrà scrutato i cieli cupi di stormi e di bombe, i mari insidiati da mine e missili. Chissà poi in quali tristi marine avrà trovato indegno ormeggio tra una crociera e l'altra attraverso gli anni della ricostruzione, del boom, delle contestazioni, delle stragi, dell'edonismo e del recesso, della fine della storia, della concertazione, della rottamazione, mentre alla barra del suo timone sentiva avvicendarsi generazioni di élites, mutanti ma con lo sfizio d'epoca, fino a quest'ultimo lupo di mare, che qualche volta negli anni scorsi entrava nella baia per gettare uno sguardo malinconico alle rovine dell'albergo, e poi si spingeva dall'altra parte, dove si stava sanando la ferita, e lei avvertiva una vibrazione come di trepidante attesa trasmettersi dalla zampa del lupo di mare alla barra del suo timone, chissà perché... Ma ora finalmente è chiaro il significato di quella vibrazione, ora il lupo di mare ha trovato per lei il definitivo posto barca (d'epoca).

Ed eccoli qui, nella ridente Portopiccolo che in fondo, e veder bene, altro non è che una innovativa sintesi terrestre dei due prestigiosi stili che nelle acque del porticciolo appaiono ancora così distinti e inconciliabili: un profluvio di cemento strutturale che assume le forme di un antico borgo di mare, 

foderate di materiali all'avanguardia termotecnica, imbellettate con rivestimenti che ammiccano al passato, e nella parte alta una cintura di alveari dove, certo, presto compariranno tende e pizzi alle finestre: non è un po' come vedere un motoscafone rivestito con le sagome in legno di una barca d'epoca? Fulgido esempio di eclettismo.
E a chi facesse anacronisticamente notare che forse altre soluzioni erano possibili per sanare lo stupro che la cava aveva perpetrato ai danni della costa, altre soluzioni che finalmente ricostituissero un bene comune e lo riconsegnassero alla collettività, a simili moleste obiezioni appaltatori e amministratori non avranno che da indicare l'evidenza: in questa scenografica rappresentazione di un vissuto inesistente, di una zuccherata idea (zucchero di canna s'intende) di passato ameno, in questa gigantesca enclosure sostenibile, è prevista e auspicata numerosa affluenza collettiva, anzi guardiamoci, è già in atto, folta comparsata di pellegrini senza traccia di sdegno, affetti da riconoscente curiosità per scorci e localini con caffè buono e panificazioni secondo ricette d'epoca e, prossimamente, naturalmente, bio. Solo eccellenze.
Ma non facciamoci travolgere da questo senso di costernazione impotente. Facciamo un ultimo sforzo, seguiamo le visioni edeniche del diplomato pellegrino, proviamo ad immaginare il luogo (?) finalmente secondoabitato. Quali saranno gli appartamenti dei due lupi di mare? Quale dei due avrà scelto un posticino più anticheggiante, un bel posticino di qualche centinaio di metri quadri che si affacciano direttamente alla piazza del porticciolo con quei bei balconi pseudo-liberty? Quale invece avrà optato per una corposa fetta di alveare con terrazzona per barbecue? Si conosceranno? Si saluteranno con tollerante cortesia nell'incrociarsi nei vari negozietti dove, delicatamente sospinti dalla Mano Invisibile, ognuno perseguirà la sua dieta, carni d'eccellenza per il barbecue, o qualche biomanicaretto d'eccellenza per la cuisine con isola centrale? Oppure si guarderanno in cagnesco, o lupesco di mare, arroccati ognuno nella sua personale, anzi personalizzata versione di eccellente lusso esclusivo?
Ma lasciamo aperte tali domande, poiché le risposte non contano nulla. E chiudiamo insieme col calar del sole, i cui estremi dardi furoreggiano rifratti in decine di smartphone pellegrini, in una proliferante ipertrofia di pixel pronti a inoculare nei social centinaia di personali, anzi personalizzate riproduzioni del castello dove dimorò e poetò Rilke, laggiù in fondo. Fondo Rilke. No, non è un gioco di parole, è il nome che la Serenissima SGR ha pensato di dare, serenissimamente, al fondo immobiliare che finanzia il Progetto. No, non è un gioco. È Rilke, in fondo.
Und alles ist einig, uns zu verschweigen, halb als Schande vielleicht und halb als unsägliche Hoffnung.

E tutto cospira a tacerci, in parte per
vergogna forse, e in parte per indicibile speranza.

Per vergogna, forse?

Marco Indrigo

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