giovedì 28 novembre 2013

 
La Nostra Guerra        
di Ivo Kozina


Questa relazione si basa sul libro “La Nostra Guerra”, stampato a Firenze nel 1915 e scritto dall'Associazione fra professori universitari. E' un esempio di propaganda interventista, una interessante raccolta di scritti, tesi a trovare varie giustificazioni alla guerra, affidati a dei professori che la analizzano e la motivano dall'alto delle loro conoscenze specifiche. Alcuni di questi professori ricopriranno, in seguito, posti di rilievo nella dittaura fascista.
La lettura risulta agevole e ho riportato molte frasi originali, impregnate di valori patriottici e nazionalistici, scegliendo gli scritti che più esaltano le cadute in contraddizione degli autori.
I temi usati per avvalorare la “guerra giusta” sono di tipo morale, culturale, economico, geografico, sempre intrisi di spirito risorgimentale, nazionalistico ed imperialistico.
Nel XX secolo la propaganda finalizzata al controllo delle masse ha dominato la scena, specie per quanto ha riguardato le guerre, ed è stata un’arma importante usata da tutti i belligeranti. Oggi le tecniche sono cambiate ma il discorso è sempre uguale. Sarebbe interessante leggere qualcosa di analogo a questo libro, magari scritto in Francia, in Germania o in Austria; vedremmo certamente gli stessi schemi di creazione e demonizzazione del nemico e si arriverebbe sempre allo stesso risultato: la guerra, naturalmente “vittoriosa e giusta”.
Accontentiamoci per ora di questo esempio italiano, che non è niente male....



Giorgio Del Vecchio, professore ordinario di filosofia del diritto all'Università di Bologna, intitola il suo intervento “Le ragioni morali della nostra guerra”.
La sua giustificazione alla guerra parte da una citazione di Tacito che definisce i Germani “Materia munificentiae per bella et raptus. Nec arare terram aut espectare annum tam facile persuaseris, quam vocare hostem et vulnera mereri. Pigrum quin immo et iners videtur sudore adquirere quod possis sanguine parare”.
E’ il primo esempio che incontriamo della creazione della diversità negativa del nemico, tema che verrà ripreso e rimarcato in seguito da altri professori e avrà la finalità di far sorgere l'odio. “Loro” cattivi, “noi” buoni…Una differenza che ci mette dalla parte di una verità etica, di un dovere morale, e che “noi” combattiamo una guerra diversa, perchè “la violenza anche se vittoriosa non ha per noi intrinseca dignità, non vale solo per la causa che essa serve ... la guerra non la facciamo per l'utilità che può portarci, potenza e floridezza, noi pensiamo anche al valore incommensurabile delle vite che debbon esser sacrificate ...”. Un’Italia, quindi, che pensa al destino dei propri figli pur mandandoli alla morte.
Il professore si cimenta poi con “il valore della nazione opposto al meschino essere individualisti ... l’esaltazione del sacrificio per una causa comune contro il nemico, l’Austria, che fece scempio dell’italianità mediante fredda e crudele arte di governo ...”. Ecco che il nemico diventa più ben definito, dai lontani Germani si arriva all’odiata Austria, ben caratterizzata.
Del Vecchio prosegue : “noi non muove cupidigia di suolo altrui, né velleità di dominazione, noi vogliamo la libertà dei fratelli ...” . Una guerra puramente ideale, dunque, se non fosse che, subito dopo, le sue affermazioni prendono un'altra piega : “..a noi non importa di valutare il pregio economico delle terre che aspiriamo a redimere, se anche mancassero i boschi lussureggianti, i prati irrigui, la solatia corona di coste frastagliate di porti e insenature, che dischiude una possibilità indefinita di traffici ed espansione mondiale, la nostra volontà di liberazione non sarebbe men ferma” . La guerra ideale lascia quindi trasparire chiaramente delle precise visioni che malamente nascondono la cupidigia e la voglia di espansione.
Ancora sulla differenza morale : “L’Italia è entrata in questa guerra ben sapendo che alcuni dei belligeranti hanno adottato una maniera di guerra che non rispetta alcun limite morale, nè giuridico, nè civile, infrange tutte le norme per le quali la guerra si distingue dalle risse e dalle rapine ....” . Pensando a come si è combattuta la Grande Guerra, tempesta mai vista di fuoco ed acciaio, viene difficile capire di cosa parli questo signore.
L’autore cita poi il Mazzini in due occasioni, una a proposito dell’unità geografica dell’Italia "L’Italia è circondata dalle Alpi e dal mare con tanta esattezza che la definiresti un’isola”, tema che verrà ripreso e sviluppato in seguito da altri autori. L’altra è una lettera che il Mazzini scrisse a tre amici tedeschi, in cui esortava il popolo Alemanno a dar risalto ai suoi valori migliori, di filosofia, di pensiero, di storia e religione, e che concludeva con l’invocazione : “Questa Alemannia non ha bisogno del circolo dell’Adige, di Trento e Roveredo, ha bisogno di unità ed armonia, ha bisogno di scrollarsi di dosso il peso delle ingiustizie che l’Austria le ha accollato”. Un uso strumentale tendente a distinguere tra tedeschi buoni e tedeschi cattivi. E poi, perché mai dovrebbero dovuto rinunciare a dei territori ricchi e popolati da genti anche tedesche?
Per Del Vecchio la guerra ha anche altri compiti, quello di “difesa dei monumenti sovrani dalla furia iconoclasta dei barbari” e quello ancor più importante di una rigenerazione della nazione tedesca, che attraverso la guerra, attraverso un bagno di sangue, “riacquisterà la sua dignità perduta e lo smarrito senso del diritto” . Una presunzione non da poco. Vede la malattia e suggerisce la giusta cura: il bagno di sangue. Egli vede la guerra come un fuoco purificatore che uccide i bassi egoismi umani, fa vivere nello spirito nazionale, esorta a frenare gli odi privati; una guerra che, oltretutto, è stata il metodo migliore per affinare l'ingegno umano “guerra esperimento cruciale, rivelatrice di attitudini sopite o ignorate...”. In quest'ultima parte si nota l’affinità con il pensiero di Giovanni Boine, teorico della guerra come strumento di ricomposizione sociale e di restaurazione coatta della disciplina, tema molto in voga all’epoca nei circoli nazionalisti.
Lasciamo questo esimio pensatore e andiamo avanti.
Prospero Fedozzi, professore ordinario di diritto internazionale all’Università di Genova, con il titolo “L’idealità nazionale e il dovere dell'Italia”, attacca le tendenze umanitarie e cosmopolitiche che pervadono la borghesia dell’epoca e deplora l’ideale socialistico abbracciato dal proletariato. A questi elementi imputa la distruzione del sentimento di Patria, ormai degradato.
Secondo lui la propaganda pacifista è lo strumento che ha infiacchito le energie nazionali, all’opposto del movimento nazionalista “che educa il popolo al sentimento di guerra e combatte il pacifismo”.
Contro il cosmopolitismo e l’internazionalismo il Fedozzi tocca un tema interessante, cioè la penetrazione che l’idea nazionale ha avuto in larghe fasce di socialisti europei, che perdono la loro vocazione internazionalista “in seguito all’affermarsi di un pensiero che vede la fase della nazionalità un necessario antecedente storico del futuro ordinamento socialista... classi operaie specialmente in Italia avevano potuto spesso constatare come le tendenze internazionalistiche si fossero spezzate quasi ovunque contro gli interessi di un proletariato fornito di più alti salari e fermo nel mantenere le posizioni conquistate, contro l’invasione di manodopera straniera.” Parole che ancora oggi hanno purtroppo una forte attualità nel mondo del lavoro e della mobilità all’interno di esso. L’autore, partendo da questo quadro, giunge ad invocare ciò che altro non sarà che il modello corporativista fascista, cioè la ricomposizione degli scontri sociali e della lotta di classe, per una nazione più forte ed unita, perchè “la fortuna di tutti è connessa con la fortuna della nazione” .
Il professore conclude con un abbraccio ideale alle nazioni amiche, al “Piccolo Belgio, anima grande in un corpo troppo piccolo, all’eroica e romanica Romania, mutilata della Transilvania dalla perfida Ungheria, e alla martire Polonia smembrata dai tre imperi”, nazioni amiche che l’Italia saprà aiutare, sostenere e liberare nella lotta contro i barbari. Come si nota, alle forze del male si sono aggiunti anche gli Ungheresi (perfidi).

Interessante, a tratti paradossale, è lo scritto di Carlo Errera, professore ordinario di geografia all’Università di Bologna. Tratta il problema dei “confini naturali”, con più profondità di altri suoi colleghi, visto la cattedra che ricopre, ma non per questo con più successo.
Il punto di partenza del problema geografico sono sempre le Alpi, e questa volta però non sono viste come un muro lineare. Il docente si rende conto che sono un insieme di catene, montagne, sorgenti fluviali e vallate. Per definire il giusto confine decide quindi di affidarsi al “Divortium acquarium”, cioè alla direzione e al tracciato seguito dalle acque.

Pur ammettendo che non è una cosa facile da farsi, afferma che la linea naturale delle Alpi è quella segnata dalla separazione delle nostre acque da quelle di altri fiumi correnti in altri mari d’Europa (per fortuna che nei mari italiani non sfocia un fiume come il Danubio, sennò il professore avrebbe avuto un grattacapo non indifferente).
Errera ammette anche che gli abitanti degli opposti versanti non hanno mai riconosciuto alcun ostacolo naturale, “ed è ben vero che in passato la razza italica abbia varcato con la sua lingua, la sua cultura e con le sue armi tale limite ... ed è ben vero che pure gli stranieri, specie tedeschi, abbiano travalicato tale limite con la loro rozzezza e la loro rabbia ...”
Ci sarebbe da ridere, ma forse è meglio sentirsi schifati. Sembra che i tedeschi non abbiano nemmeno avuto una loro lingua, ma che fossero una specie di orda di trogloditi che grugnivano. Al contrario, la “razza italica” che invadeva le terre dei Germani era ben parlante, colta e portava tutto questo ben di dio attraverso le armi.
Ma torniamo ai confini.
Nonostante le difficoltà di interpretazione, per il professore le Alpi sono e restano il confine naturale dell’Italia.
Un nuovo problema si presenta però nella parte orientale, dove le Alpi degradano sino a perdersi nell'altipiano carsico, purtroppo privo di vie fluviali di superficie.
In questa zona lo stesso problema si è presentato anche ai tedeschi, di cui il professore ne deplora con rabbia la soluzione, dato che hanno fissato l’Isonzo come limite naturale del Carso.
Errera parla quindi di “modo schiettamente germanico di violentare le forme e i segni della crosta terrestre”. In che cosa si differenzi dal suo metodo non si capisce proprio (chiunque abitasse in questa zona orientale e amasse passeggiare in Carso, potrebbe ben dire che di confini naturali non se ne vedono proprio). Il professore, proseguendo nelle sue teorie, si spinge fino a nord di Fiume “dove nasce il Timavo, che sfocia al termine della pianura veneziana”, tirando in ballo anche la Sava. Sembra un gioco di fantasia, con questi sistemi si potrebbero ampliare gli stati a dismisura.
Errera accenna pure al problema delle lingue, che richiederebbe data la sua complessità ben altra sede e mole di lavoro. Cito solo che a proposito dell’italianità dell’Istria e della Dalmazia egli produce questa frase infelice : “ ... Pirano delirante contro l’onta delle tabelle recanti accanto all’iscrizione italiana l’insulto di un’iscrizione croata ...”, frase interessantissima dato che ancora oggi a Trieste si “discute” di bilinguismo con toni e linguaggi identici.
Per spiegare la predominanza italiana, l’autore rileva che nelle terre italiche ci sono “38 milioni di figli e poche centinaia di migliaia di tedeschi e slavi, ospiti discesi entro le nostre valli o sulle sponde del nostro mare”. Non lo coglie il dubbio che l’Austria può usare una logica analoga riguardo agli italiani “ospiti” nell’Impero.
Dopo le Alpi, pure l’Adriatico è motivo di forte preoccupazione, soprattutto per questioni di ordine militare. Infatti dalle coste istriane e dalmate incombe la minaccia della forte marina austriaca, che in poche ore può mettere in ginocchio l’Italia. Per questo motivo è intollerabile che tali zone restino in mano nemica.

Il professor Gino Arias, ordinario di economia politica all’Università di Genova, tratta il tema “La nostra guerra e la ricchezza italiana”, andando al cuore del problema, svelando cioè i vantaggi economici che deriverebbero da una vittoria.
Inizia elogiando il collega Del Vecchio ed i suoi valori morali, per puntare subito “al bisogno materiale di questa guerra”.
Imposta il suo discorso sulla lotta mercantile tra i vari porti europei, lamentando l’invadenza di Amburgo e Brema, che si spingono oltre “le naturali zone di irradiazione” , sottraendo i traffici ai porti italiani del nord. Secondo l’autore, Genova, Trieste, Venezia e Fiume, hanno “il diritto di raccogliere e trasmettere ai popoli dell'Europa centrale, fino a certi confini che non si possono stabilire con sicurezza (!) le merci dell’Oriente, dell’Africa e dell’America...” Il perchè di questo diritto non è però spiegato. Continua quindi “...ciò è elemento essenziale della nostra missione nell’economia europea, non certo quella che altri si attribuiscono, accecati da prepotente volontà di dominio...” . Ecco che si ricade ancora nell’inghippo che la stessa cosa fatta da “noi” è sacrosanta e morale, mentre fatta dagli “altri” è un sopruso prepotente ed intollerabile.
Il professore dedica anche alcune righe a Trieste, accusando l’Austria di alimentare la rivalità fra quest’ultima e Venezia e di tenere il porto triestino in condizioni di sottosviluppo rispetto il suo potenziale, per non irritare i fratelli germanici con un’invasione in zone mercantili loro. Così l’Austria non trova di meglio da fare che danneggiare Venezia invadendo le sue competenze tramite l’attività dello scalo triestino.
Subito dopo Arias si contraddice due volte, la prima lamentando che l’Austria ha costruito tre linee ferroviarie alpine, in modo da collegare meglio Trieste con Monaco e Berlino, la seconda quando afferma che se Trieste sarà riconquistata i suoi traffici dovranno per forza diminuire (non vi dice niente questo?…) per non danneggiare Venezia. Rimarrà però in cambio la consolazione di veder cessare la rivalità fra le due città marinare. Nonostante quest’ottica di ridimensionamento, “chi domina Trieste domina il ricco traffico del Levante...” , specialmente da e verso la Turchia, ghiotto boccone da spartire tra potenze europee in vista di un suo imminente crollo. Una Trieste che “è per eccellenza, perchè cosi' ha voluto la natura, una stazione italiana”, minacciata da mire espansionistiche germaniche, che “se per dannata ipotesi riuscissero a prenderla, il Mediterraneo diventerebbe un lago tedesco, togliendo all’Italia il polmone economico del Levante” . Per mantenere questo controllo è necessario ottenere il dominio anche su Fiume, rivendicata dagli Ungheresi, sull’Istria e sulla Dalmazia.
Arias s’impegna quindi nel fornire alcuni dati che lo fanno indignare: nel 1911 la partecipazione della Marina Mercantile Italiana ai traffici della Germania fu di sole 50 navi per 76.000 tonnellate, mentre la partecipazione tedesca ai nostri traffici fu di ben 3380 navi per 85.000.000 di tonnellate, e ciò viene messo in relazione al controllo delle terre irredente. La smentita arriva subito dopo quando si lamenta la mancanza di carbone sul suolo patrio, causa della carenza delle navi a vapore nella flotta mercantile italiana. In Italia infatti il tonnellaggio di velieri è di ben 6/10 del totale, mentre in Austria siamo a poco più di 1/1000 di tonnellaggio a vela rispetto ai piroscafi. …Che c’è di meglio dell’accusare gli altri, specie se tedeschi, delle proprie incapacità?
L’autore passa poi all’agricoltura, dando la colpa del suo cattivo stato ai trattati commerciali e al protezionismo di Francia e Usa, salvo poi lamentare come sempre l’arretratezza di sistemi e tecnologie agricole italiani, liquidando però tale argomento con un laconico ed insulso “ciò non ha diretto rapporto con il nostro tema” .
Vagheggiando la conquista del Trentino parla poi di “vantaggio minimo in confronto all’ordine morale, militare, politico, però apprezzabile se si pensa alla florida selvicoltura trentina che ha un’esportazione in Italia di 4 milioni di corone annue, seppur ostacolata dalla scarsità di comunicazioni con l’Italia, in contrasto con l’abbondanza di strade che lo avvicinano al Tirolo tedesco ...”. Il discorso continua assumendo toni entusiastici : “si aggiungano l’allevamento del bestiame, pascoli magnifici, industria enologica, gelsicoltura in straordinario progresso contrariamente a quanto accade in Italia, la frutticoltura, fiorenti industrie agricole ... non si dimentichi la forza idraulica che l’Austria non vuole esportare per innata diffidenza verso l’Italia ...” . Come si può ben vedere dei tanto decantati valori morali non è rimasto nulla e una guerra condotta con questi obiettivi non si differenzia in niente da una rapina.
Arias fa anche un discorso sull’immigrazione, che vede come importante fonte di entrate e di miglioramento economico per le regioni meridionali, allo stesso tempo però lamenta le sue conseguenze negative:
  1. rilassatezza morale e di costumi
  2. indebolimento dei vincoli familiari
  3. cattiva nomea che è riservata in America alle colonie italiane a causa dei lavori umili da queste esercitati
  4. indebolimento dell’esercito causa la renitenza davvero elevatissima in dette regioni
  5. decadimento delle piccole industrie
  6. decadimento dell’agricoltura per mancanza di braccia
  7. aumento eccessivo del costo della manodopera (subito dopo ammette però che i salari agricoli del tempo erano irrisori ed inumani).
Questa guerra avrebbe dunque, rispetto all’immigrazione, un duplice beneficio: migliorando la situazione economica la bloccherebbe e, grazie al valore dimostrato in guerra, imporrebbe all’estero un più alto rispetto del nome italiano e una più giusta valutazione per il suo lavoro.

Il professor Arrigo Solmi, docente di diritto ecclesiastico all'Università di Pavia, affronta “Le ragioni e la necessità della guerra alla Turchia”.
Anche in questo caso il “cliché” non cambia, si affibbiano al nemico tutti i connotati negativi e su questo si costruisce un “diritto” o una “ragione”.
Solmi ripercorre la storia dell’Impero Ottomano, non staremo qui a riassumerla, ponendo l’accento su come la sua espansione fu “violenta” (come se, le altre espansioni imperiali, fossero state pacifiche). Si crea subito dopo lo stereotipo del “barbaro”, questa volta anche “asiatico”, che guarda caso combatte dalla stessa parte del “barbaro germanico” contro la civiltà latina.
Solmi parla di “vergogna della civiltà moderna che ancora lascia sopravvivere l’astuto, crudele e obbrobrioso dominio turco” , mantenuto in piedi da tutte le potenze, timorose del caos che potrebbe provocare la sua scomparsa (non si dimentichi che la Turchia era vista come un guardiano dei pazzi, specialmente in riferimento alla situazione balcanica).
Vien tirata quindi in ballo la Germania, rea di essere arrivata per ultima sullo scacchiere ottomano e di essere riuscita però a strappare ottimi accordi commerciali e buone concessioni, aumentando di fatto la propria potenza economica e il proprio ruolo diplomatico.
A questo proposito Solmi ricorda la visita di Guglielmo II, nel 1898, a Gerusalemme, nella quale il Kaiser dimostrò molta simpatia verso il mondo musulmano e che diede inizio ad una intimità turco-germanica non più interrotta. L’autore, però, non ricorda le intimità franco-turche o anglo-turche: non fu la Francia che iniziò l’ammodernamento dell'esercito ottomano, il “nizam”, che portò all'eliminazione fisica dei Giannizzeri, divenuti ormai troppo ingombranti? E non fu l’Inghilterra che difese più volte la Turchia in funzione anti-russa? Il professore queste cose non le ricorda o non le sa.
Una Turchia, dunque, mantenuta sempre in piedi grazie all’aiuto di qualcun altro, che solo l’Italia e la Russia hanno avuto la capacità e l’ardire di far vacillare. L’amata Italia che, specialmente dopo la guerra di Crimea, mise in luce tra alti e bassi il suo ruolo di rinata nazione, anche se troppo acquiescente verso le potenze in fatto di politica estera.
Secondo Solmi, appena con l’occupazione della Libia e del Dodecanneso l’Italia si scrollò di dosso il torpore, entrando, “come di diritto”, nella competizione europea. In seguito a queste due mosse militari si giunse al patto di Losanna che però la Turchia non rispettò ed è questo il motivo principale per farle guerra. Infatti, ottenuto il controllo sulla Libia, l’Italia non vide cessare le ostilità delle popolazioni locali fomentata dagli agenti turchi.
Solmi rammenta che non è bastato nemmeno garantire la continuità della pratica religiosa musulmana, sotto il benevolo occhio italiano, per pacificare la situazione.
Inoltre, egli registra : “ostilità verso cittadini italiani nell’impero ottomano e dispregio per ogni legittimo interesse italiano in Oriente” e come se non bastasse deplora anche la perdita della ricca città di Adalia (Antalya) concessa dagli inglesi all’Italia, che quindi spetta a quest’ultima di diritto.
Solmi volge alla conclusione ricordando ancora la “malvagità turca”, “l’obbrobrioso impero” e “la barbarie ottomana” ricordando (pure lui) che questa guerra non è mossa da intenti egoistici ma in primo luogo da ansie di dare libertà a nazioni oppresse, e solo secondariamente a garantirsi il “giusto profitto economico” .
Una guerra, insomma, “con il crisma puro e sacro della giustizia” .

Ho citato in questa relazione cinque tra i nove professori che concorsero alla stesura del libro, quelli che ho tralasciato sono stati meno incisivi sul piano propagandistico, si sono dilungati molto in riassunti e ricostruzioni storiche di avvenimenti che sono peraltro facilmente rintracciabili in un buon manuale, ripetendo gli stessi temi dei colleghi ma con minor vigore.
Resta da dire ancora che le conoscenze specifiche di questi professori non hanno prodotto un lavoro apprezzabile da un punto di vista propriamente storico, perchè appunto la lucidità e l’analisi ha lasciato il posto alla passione patriottica.
Il documento lasciato è interessante, invece, perché mette a nudo il modo di pensare dei circoli patriottici e nazionalisti di allora.
Pensando che uomini di cultura, in tutti i Paesi, abbiano incitato i giovani alla guerra, mi viene in mente un passo del romanzo di Remarque, “All’ovest niente di nuovo”, in cui un ex studente tedesco incontra in prima linea il suo ex professore dall’aria sparuta e con aria minacciosa lo approccia: “... Soldato Kantorek - gli ho detto - due anni fa voi con le vostre prediche ci avete portato a presentarci al comando del presidio; fra gli altri c’era anche il povero Giuseppe Behm, che non voleva, ed è caduto tre mesi prima della chiamata della sua classe. Senza di voi, sarebbe rimasto in vita almeno quei pochi mesi. E ora andate pure: avremo occasione di rivederci”.
Concludendo vorrei citare alcune parole molto significative del filosofo Benedetto Croce, che nel 1914 ad un giornale romano rilasciò un’intervista a proposito dei toni accesi e degli stati d’animo aggressivi diffusi in una parte della popolazione : “... credo che, a guerra finita, si giudicherà che il suolo d’Europa ha tremato non solo sotto il peso delle armi, ma anche sotto quello degli spropositi. E i Francesi, Inglesi, Tedeschi e Italiani si vergogneranno e chiederanno venia per i giudizi che hanno pronunciato, e diranno che non erano giudizi ma espressioni di affetti. E anche più arrossiremo noi, neutrali, che spesso abbiamo parlato, come di cosa evidente, della barbarie germanica. Fra tutti gli spropositi, frutti di stagione, questo otterrà il primato, perchè certo è il più grandioso”.



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