La
Nostra Guerra
di Ivo Kozina
Questa
relazione si basa sul libro “La Nostra Guerra”, stampato a
Firenze nel 1915 e scritto dall'Associazione fra professori
universitari. E' un esempio di propaganda interventista, una
interessante raccolta di scritti, tesi a trovare varie
giustificazioni alla guerra, affidati a dei professori che la
analizzano e la motivano dall'alto delle loro conoscenze specifiche.
Alcuni di questi professori ricopriranno, in seguito, posti di
rilievo nella dittaura fascista.
La
lettura risulta agevole e ho riportato molte frasi originali,
impregnate di valori patriottici e nazionalistici, scegliendo gli
scritti che più esaltano le cadute in contraddizione degli
autori.
I
temi usati per avvalorare la “guerra giusta” sono di tipo morale,
culturale, economico, geografico, sempre intrisi di spirito
risorgimentale, nazionalistico ed imperialistico.
Nel
XX secolo la propaganda finalizzata al controllo delle masse ha
dominato la scena, specie per quanto ha riguardato le guerre, ed è
stata un’arma importante usata da tutti i belligeranti. Oggi le
tecniche sono cambiate ma il discorso è sempre uguale. Sarebbe
interessante leggere qualcosa di analogo a questo libro, magari
scritto in Francia, in Germania o in Austria; vedremmo certamente gli
stessi schemi di creazione e demonizzazione del nemico e si
arriverebbe sempre allo stesso risultato: la guerra, naturalmente
“vittoriosa e giusta”.
Accontentiamoci
per ora di questo esempio italiano, che non è niente male....
Giorgio
Del Vecchio, professore ordinario di
filosofia del diritto all'Università di Bologna, intitola il
suo intervento “Le ragioni morali della nostra guerra”.
La
sua giustificazione alla guerra parte da una citazione di Tacito che
definisce i Germani “Materia munificentiae
per bella et raptus. Nec arare terram aut espectare annum tam facile
persuaseris, quam vocare hostem et vulnera mereri. Pigrum quin immo
et iners videtur sudore adquirere quod possis sanguine parare”.
E’
il primo esempio che incontriamo della creazione della diversità
negativa del nemico, tema che verrà ripreso e rimarcato in
seguito da altri professori e avrà la finalità di far
sorgere l'odio. “Loro” cattivi, “noi” buoni…Una differenza
che ci mette dalla parte di una verità etica, di un dovere
morale, e che “noi” combattiamo una guerra diversa, perchè
“la violenza anche se vittoriosa non ha per
noi intrinseca dignità, non vale solo per la causa che essa
serve ... la guerra non la facciamo per l'utilità che può
portarci, potenza e floridezza, noi pensiamo anche al valore
incommensurabile delle vite che debbon esser sacrificate ...”.
Un’Italia, quindi, che pensa al destino dei propri figli pur
mandandoli alla morte.
Il
professore si cimenta poi con “il valore
della nazione opposto al meschino essere individualisti ...
l’esaltazione del sacrificio per una causa comune contro il nemico,
l’Austria, che fece scempio dell’italianità mediante
fredda e crudele arte di governo ...”. Ecco
che il nemico diventa più ben definito, dai lontani Germani si
arriva all’odiata Austria, ben caratterizzata.
Del
Vecchio prosegue : “noi non muove cupidigia
di suolo altrui, né velleità di dominazione, noi
vogliamo la libertà dei fratelli ...”
. Una guerra puramente ideale, dunque, se non fosse che, subito
dopo, le sue affermazioni prendono un'altra piega : “..a
noi non importa di valutare il pregio economico delle terre che
aspiriamo a redimere, se anche mancassero i boschi lussureggianti, i
prati irrigui, la solatia corona di coste frastagliate di porti e
insenature, che dischiude una possibilità indefinita di
traffici ed espansione mondiale, la nostra volontà di
liberazione non sarebbe men ferma” . La
guerra ideale lascia quindi trasparire chiaramente delle precise
visioni che malamente nascondono la cupidigia e la voglia di
espansione.
Ancora
sulla differenza morale : “L’Italia è
entrata in questa guerra ben sapendo che alcuni dei belligeranti
hanno adottato una maniera di guerra che non rispetta alcun limite
morale, nè giuridico, nè civile, infrange tutte le
norme per le quali la guerra si distingue dalle risse e dalle rapine
....” . Pensando a come si è
combattuta la Grande Guerra, tempesta mai vista di fuoco ed acciaio,
viene difficile capire di cosa parli questo signore.
L’autore
cita poi il Mazzini in due occasioni, una a proposito dell’unità
geografica dell’Italia "L’Italia è
circondata dalle Alpi e dal mare con tanta esattezza che la
definiresti un’isola”, tema che verrà
ripreso e sviluppato in seguito da altri autori. L’altra è
una lettera che il Mazzini scrisse a tre amici tedeschi, in cui
esortava il popolo Alemanno a dar risalto ai suoi valori migliori, di
filosofia, di pensiero, di storia e religione, e che concludeva con
l’invocazione : “Questa Alemannia non ha
bisogno del circolo dell’Adige, di Trento e Roveredo, ha bisogno di
unità ed armonia, ha bisogno di scrollarsi di dosso il peso
delle ingiustizie che l’Austria le ha accollato”.
Un uso strumentale tendente a distinguere tra tedeschi buoni e
tedeschi cattivi. E poi, perché mai dovrebbero dovuto
rinunciare a dei territori ricchi e popolati da genti anche
tedesche?
Per
Del Vecchio la guerra ha anche altri compiti, quello di “difesa
dei monumenti sovrani dalla furia iconoclasta dei barbari”
e quello ancor più importante di una rigenerazione della
nazione tedesca, che attraverso la guerra, attraverso un bagno di
sangue, “riacquisterà la sua dignità
perduta e lo smarrito senso del diritto” .
Una presunzione non da poco. Vede la malattia e suggerisce la giusta
cura: il bagno di sangue. Egli vede la guerra come un fuoco
purificatore che uccide i bassi egoismi umani, fa vivere nello
spirito nazionale, esorta a frenare gli odi privati; una guerra che,
oltretutto, è stata il metodo migliore per affinare l'ingegno
umano “guerra esperimento cruciale,
rivelatrice di attitudini sopite o ignorate...”. In
quest'ultima parte si nota l’affinità con il pensiero di
Giovanni Boine, teorico della guerra come strumento di ricomposizione
sociale e di restaurazione coatta della disciplina, tema molto in
voga all’epoca nei circoli nazionalisti.
Lasciamo
questo esimio pensatore e andiamo avanti.
Prospero
Fedozzi, professore ordinario di diritto
internazionale all’Università di Genova, con il titolo
“L’idealità nazionale e il dovere dell'Italia”, attacca
le tendenze umanitarie e cosmopolitiche che pervadono la borghesia
dell’epoca e deplora l’ideale socialistico abbracciato dal
proletariato. A questi elementi imputa la distruzione del sentimento
di Patria, ormai degradato.
Secondo
lui la propaganda pacifista è lo strumento che ha infiacchito
le energie nazionali, all’opposto del movimento nazionalista
“che educa il popolo al sentimento di guerra e combatte il
pacifismo”.
Contro
il cosmopolitismo e l’internazionalismo il Fedozzi tocca un tema
interessante, cioè la penetrazione che l’idea nazionale ha
avuto in larghe fasce di socialisti europei, che perdono la loro
vocazione internazionalista “in seguito
all’affermarsi di un pensiero che vede la fase della nazionalità
un necessario antecedente storico del futuro ordinamento
socialista... classi operaie specialmente in Italia avevano potuto
spesso constatare come le tendenze internazionalistiche si fossero
spezzate quasi ovunque contro gli interessi di un proletariato
fornito di più alti salari e fermo nel mantenere le posizioni
conquistate, contro l’invasione di manodopera straniera.”
Parole che ancora oggi hanno purtroppo una forte attualità
nel mondo del lavoro e della mobilità all’interno di esso.
L’autore, partendo da questo quadro, giunge ad invocare ciò
che altro non sarà che il modello corporativista fascista,
cioè la ricomposizione degli scontri sociali e della lotta di
classe, per una nazione più forte ed unita, perchè “la
fortuna di tutti è connessa con la fortuna della nazione”
.
Il
professore conclude con un abbraccio ideale alle nazioni amiche, al
“Piccolo Belgio, anima grande in un corpo
troppo piccolo, all’eroica e romanica Romania, mutilata della
Transilvania dalla perfida Ungheria, e alla martire Polonia smembrata
dai tre imperi”, nazioni amiche che
l’Italia saprà aiutare, sostenere e liberare nella lotta
contro i barbari. Come si nota, alle forze del male si sono aggiunti
anche gli Ungheresi (perfidi).
Interessante,
a tratti paradossale, è lo scritto di Carlo
Errera, professore ordinario di geografia
all’Università di Bologna. Tratta il problema dei “confini
naturali”, con più profondità di altri suoi colleghi,
visto la cattedra che ricopre, ma non per questo con più
successo.
Il
punto di partenza del problema geografico sono sempre le Alpi, e
questa volta però non sono viste come un muro lineare. Il
docente si rende conto che sono un insieme di catene, montagne,
sorgenti fluviali e vallate. Per definire il giusto confine decide
quindi di affidarsi al “Divortium acquarium”, cioè alla
direzione e al tracciato seguito dalle acque.
Pur
ammettendo che non è una cosa facile da farsi, afferma che la
linea naturale delle Alpi è quella segnata dalla separazione
delle nostre acque da quelle di altri fiumi correnti in altri mari
d’Europa (per fortuna che nei mari italiani non sfocia un fiume
come il Danubio, sennò il professore avrebbe avuto un
grattacapo non indifferente).
Errera
ammette anche che gli abitanti degli opposti versanti non hanno mai
riconosciuto alcun ostacolo naturale, “ed è
ben vero che in passato la razza italica abbia varcato con la sua
lingua, la sua cultura e con le sue armi tale limite ... ed è
ben vero che pure gli stranieri, specie tedeschi, abbiano travalicato
tale limite con la loro rozzezza e la loro rabbia ...”
Ci
sarebbe da ridere, ma forse è meglio sentirsi schifati. Sembra
che i tedeschi non abbiano nemmeno avuto una loro lingua, ma che
fossero una specie di orda di trogloditi che grugnivano. Al
contrario, la “razza italica” che invadeva le terre dei Germani
era ben parlante, colta e portava tutto questo ben di dio attraverso
le armi.
Ma
torniamo ai confini.
Nonostante
le difficoltà di interpretazione, per il professore le Alpi
sono e restano il confine naturale dell’Italia.
Un
nuovo problema si presenta però nella parte orientale, dove le
Alpi degradano sino a perdersi nell'altipiano carsico, purtroppo
privo di vie fluviali di superficie.
In
questa zona lo stesso problema si è presentato anche ai
tedeschi, di cui il professore ne deplora con rabbia la soluzione,
dato che hanno fissato l’Isonzo come limite naturale del Carso.
Errera
parla quindi di “modo schiettamente
germanico di violentare le forme e i segni della crosta terrestre”.
In che cosa si differenzi dal suo metodo non si capisce proprio
(chiunque abitasse in questa zona orientale e amasse passeggiare in
Carso, potrebbe ben dire che di confini naturali non se ne vedono
proprio). Il professore, proseguendo nelle sue teorie, si spinge fino
a nord di Fiume “dove nasce il Timavo, che
sfocia al termine della pianura veneziana”,
tirando in ballo anche la Sava. Sembra un gioco di fantasia, con
questi sistemi si potrebbero ampliare gli stati a dismisura.
Errera
accenna pure al problema delle lingue, che richiederebbe data la sua
complessità ben altra sede e mole di lavoro. Cito solo che a
proposito dell’italianità dell’Istria e della Dalmazia
egli produce questa frase infelice : “ ...
Pirano delirante contro l’onta delle tabelle recanti accanto
all’iscrizione italiana l’insulto di un’iscrizione croata ...”,
frase interessantissima dato che ancora oggi a Trieste si “discute”
di bilinguismo con toni e linguaggi identici.
Per
spiegare la predominanza italiana, l’autore rileva che nelle terre
italiche ci sono “38 milioni di figli e
poche centinaia di migliaia di tedeschi e slavi, ospiti discesi entro
le nostre valli o sulle sponde del nostro mare”.
Non lo coglie il dubbio che l’Austria può usare una logica
analoga riguardo agli italiani “ospiti” nell’Impero.
Dopo
le Alpi, pure l’Adriatico è motivo di forte preoccupazione,
soprattutto per questioni di ordine militare. Infatti dalle coste
istriane e dalmate incombe la minaccia della forte marina austriaca,
che in poche ore può mettere in ginocchio l’Italia. Per
questo motivo è intollerabile che tali zone restino in mano
nemica.
Il
professor Gino Arias,
ordinario di economia politica all’Università di Genova,
tratta il tema “La nostra guerra e la ricchezza italiana”,
andando al cuore del problema, svelando cioè i vantaggi
economici che deriverebbero da una vittoria.
Inizia
elogiando il collega Del Vecchio ed i suoi valori morali, per puntare
subito “al bisogno materiale di questa
guerra”.
Imposta
il suo discorso sulla lotta mercantile tra i vari porti europei,
lamentando l’invadenza di Amburgo e Brema, che si spingono oltre
“le naturali zone di irradiazione”
, sottraendo i traffici ai porti italiani del nord. Secondo l’autore,
Genova, Trieste, Venezia e Fiume, hanno “il
diritto di raccogliere e trasmettere ai popoli dell'Europa centrale,
fino a certi confini che non si possono stabilire con sicurezza
(!) le merci dell’Oriente, dell’Africa e
dell’America...” Il perchè di
questo diritto non è però spiegato. Continua quindi
“...ciò è elemento essenziale
della nostra missione nell’economia europea, non certo quella che
altri si attribuiscono, accecati da prepotente volontà di
dominio...” . Ecco che si ricade ancora
nell’inghippo che la stessa cosa fatta da “noi” è
sacrosanta e morale, mentre fatta dagli “altri” è un
sopruso prepotente ed intollerabile.
Il
professore dedica anche alcune righe a Trieste, accusando l’Austria
di alimentare la rivalità fra quest’ultima e Venezia e di
tenere il porto triestino in condizioni di sottosviluppo rispetto il
suo potenziale, per non irritare i fratelli germanici con
un’invasione in zone mercantili loro. Così l’Austria non
trova di meglio da fare che danneggiare Venezia invadendo le sue
competenze tramite l’attività dello scalo triestino.
Subito
dopo Arias si contraddice due volte, la prima lamentando che
l’Austria ha costruito tre linee ferroviarie alpine, in modo da
collegare meglio Trieste con Monaco e Berlino, la seconda quando
afferma che se Trieste sarà riconquistata i suoi traffici
dovranno per forza diminuire (non vi dice niente questo?…) per non
danneggiare Venezia. Rimarrà però in cambio la
consolazione di veder cessare la rivalità fra le due città
marinare. Nonostante quest’ottica di ridimensionamento, “chi
domina Trieste domina il ricco traffico del Levante...”
, specialmente da e verso la Turchia, ghiotto boccone da spartire tra
potenze europee in vista di un suo imminente crollo. Una Trieste che
“è per eccellenza, perchè
cosi' ha voluto la natura, una stazione italiana”,
minacciata da mire espansionistiche germaniche, che “se
per dannata ipotesi riuscissero a prenderla, il Mediterraneo
diventerebbe un lago tedesco, togliendo all’Italia il polmone
economico del Levante” . Per mantenere
questo controllo è necessario ottenere il dominio anche su
Fiume, rivendicata dagli Ungheresi, sull’Istria e sulla Dalmazia.
Arias
s’impegna quindi nel fornire alcuni dati che lo fanno indignare:
nel 1911 la partecipazione della Marina Mercantile Italiana ai
traffici della Germania fu di sole 50 navi per 76.000 tonnellate,
mentre la partecipazione tedesca ai nostri traffici fu di ben 3380
navi per 85.000.000 di tonnellate, e ciò viene messo in
relazione al controllo delle terre irredente. La smentita arriva
subito dopo quando si lamenta la mancanza di carbone sul suolo
patrio, causa della carenza delle navi a vapore nella flotta
mercantile italiana. In Italia infatti il tonnellaggio di velieri è
di ben 6/10 del totale, mentre in Austria siamo a poco più di
1/1000 di tonnellaggio a vela rispetto ai piroscafi. …Che c’è
di meglio dell’accusare gli altri, specie se tedeschi, delle
proprie incapacità?
L’autore
passa poi all’agricoltura, dando la colpa del suo cattivo stato ai
trattati commerciali e al protezionismo di Francia e Usa, salvo poi
lamentare come sempre l’arretratezza di sistemi e tecnologie
agricole italiani, liquidando però tale argomento con un
laconico ed insulso “ciò non ha
diretto rapporto con il nostro tema” .
Vagheggiando
la conquista del Trentino parla poi di “vantaggio
minimo in confronto all’ordine morale, militare, politico, però
apprezzabile se si pensa alla florida selvicoltura trentina che ha
un’esportazione in Italia di 4 milioni di corone annue, seppur
ostacolata dalla scarsità di comunicazioni con l’Italia, in
contrasto con l’abbondanza di strade che lo avvicinano al Tirolo
tedesco ...”. Il discorso continua
assumendo toni entusiastici : “si aggiungano
l’allevamento del bestiame, pascoli magnifici, industria enologica,
gelsicoltura in straordinario progresso contrariamente a quanto
accade in Italia, la frutticoltura, fiorenti industrie agricole ...
non si dimentichi la forza idraulica che l’Austria non vuole
esportare per innata diffidenza verso l’Italia ...”
. Come si può ben vedere dei tanto decantati valori morali non
è rimasto nulla e una guerra condotta con questi obiettivi non
si differenzia in niente da una rapina.
Arias
fa anche un discorso sull’immigrazione, che vede come importante
fonte di entrate e di miglioramento economico per le regioni
meridionali, allo stesso tempo però lamenta le sue conseguenze
negative:
- rilassatezza morale e di costumi
- indebolimento dei vincoli familiari
- cattiva nomea che è riservata in America alle colonie italiane a causa dei lavori umili da queste esercitati
- indebolimento dell’esercito causa la renitenza davvero elevatissima in dette regioni
- decadimento delle piccole industrie
- decadimento dell’agricoltura per mancanza di braccia
- aumento eccessivo del costo della manodopera (subito dopo ammette però che i salari agricoli del tempo erano irrisori ed inumani).
Questa
guerra avrebbe dunque, rispetto all’immigrazione, un duplice
beneficio: migliorando la situazione economica la bloccherebbe e,
grazie al valore dimostrato in guerra, imporrebbe all’estero un più
alto rispetto del nome italiano e una più giusta valutazione
per il suo lavoro.
Il
professor Arrigo Solmi,
docente di diritto ecclesiastico all'Università di Pavia,
affronta “Le ragioni e la necessità della guerra alla
Turchia”.
Anche
in questo caso il “cliché” non cambia, si affibbiano al
nemico tutti i connotati negativi e su questo si costruisce un
“diritto” o una “ragione”.
Solmi
ripercorre la storia dell’Impero Ottomano, non staremo qui a
riassumerla, ponendo l’accento su come la sua espansione fu
“violenta” (come se, le altre espansioni imperiali, fossero state
pacifiche). Si crea subito dopo lo stereotipo del “barbaro”,
questa volta anche “asiatico”, che guarda caso combatte dalla
stessa parte del “barbaro germanico” contro la civiltà
latina.
Solmi
parla di “vergogna della civiltà
moderna che ancora lascia sopravvivere l’astuto, crudele e
obbrobrioso dominio turco” , mantenuto in
piedi da tutte le potenze, timorose del caos che potrebbe provocare
la sua scomparsa (non si dimentichi che la Turchia era vista come un
guardiano dei pazzi, specialmente in riferimento alla situazione
balcanica).
Vien
tirata quindi in ballo la Germania, rea di essere arrivata per ultima
sullo scacchiere ottomano e di essere riuscita però a
strappare ottimi accordi commerciali e buone concessioni, aumentando
di fatto la propria potenza economica e il proprio ruolo diplomatico.
A
questo proposito Solmi ricorda la visita di Guglielmo II, nel 1898, a
Gerusalemme, nella quale il Kaiser dimostrò molta simpatia
verso il mondo musulmano e che diede inizio ad una intimità
turco-germanica non più interrotta. L’autore, però,
non ricorda le intimità franco-turche o anglo-turche: non fu
la Francia che iniziò l’ammodernamento dell'esercito
ottomano, il “nizam”, che portò all'eliminazione fisica
dei Giannizzeri, divenuti ormai troppo ingombranti? E non fu
l’Inghilterra che difese più volte la Turchia in funzione
anti-russa? Il professore queste cose non le ricorda o non le sa.
Una
Turchia, dunque, mantenuta sempre in piedi grazie all’aiuto di
qualcun altro, che solo l’Italia e la Russia hanno avuto la
capacità e l’ardire di far vacillare. L’amata Italia che,
specialmente dopo la guerra di Crimea, mise in luce tra alti e bassi
il suo ruolo di rinata nazione, anche se troppo acquiescente verso le
potenze in fatto di politica estera.
Secondo
Solmi, appena con l’occupazione della Libia e del Dodecanneso
l’Italia si scrollò di dosso il torpore, entrando, “come
di diritto”, nella competizione europea. In
seguito a queste due mosse militari si giunse al patto di Losanna che
però la Turchia non rispettò ed è questo il
motivo principale per farle guerra. Infatti, ottenuto il controllo
sulla Libia, l’Italia non vide cessare le ostilità delle
popolazioni locali fomentata dagli agenti turchi.
Solmi
rammenta che non è bastato nemmeno garantire la continuità
della pratica religiosa musulmana, sotto il benevolo occhio italiano,
per pacificare la situazione.
Inoltre,
egli registra : “ostilità verso
cittadini italiani nell’impero ottomano e dispregio per ogni
legittimo interesse italiano in Oriente”
e come se non bastasse deplora anche la perdita della ricca città
di Adalia (Antalya) concessa dagli inglesi all’Italia, che quindi
spetta a quest’ultima di diritto.
Solmi
volge alla conclusione ricordando ancora la “malvagità
turca”, “l’obbrobrioso
impero” e “la
barbarie ottomana” ricordando (pure lui)
che questa guerra non è mossa da intenti egoistici ma in primo
luogo da ansie di dare libertà a nazioni oppresse, e solo
secondariamente a garantirsi il “giusto
profitto economico” .
Una
guerra, insomma, “con il crisma puro e sacro
della giustizia” .
Ho
citato in questa relazione cinque tra i nove professori che
concorsero alla stesura del libro, quelli che ho tralasciato sono
stati meno incisivi sul piano propagandistico, si sono dilungati
molto in riassunti e ricostruzioni storiche di avvenimenti che sono
peraltro facilmente rintracciabili in un buon manuale, ripetendo gli
stessi temi dei colleghi ma con minor vigore.
Resta
da dire ancora che le conoscenze specifiche di questi professori non
hanno prodotto un lavoro apprezzabile da un punto di vista
propriamente storico, perchè appunto la lucidità e
l’analisi ha lasciato il posto alla passione patriottica.
Il
documento lasciato è interessante, invece, perché mette
a nudo il modo di pensare dei circoli patriottici e nazionalisti di
allora.
Pensando
che uomini di cultura, in tutti i Paesi, abbiano incitato i giovani
alla guerra, mi viene in mente un passo del romanzo di Remarque,
“All’ovest niente di nuovo”, in cui un ex studente tedesco
incontra in prima linea il suo ex professore dall’aria sparuta e
con aria minacciosa lo approccia: “...
Soldato Kantorek - gli ho detto - due anni fa voi con le vostre
prediche ci avete portato a presentarci al comando del presidio; fra
gli altri c’era anche il povero Giuseppe Behm, che non voleva, ed è
caduto tre mesi prima della chiamata della sua classe. Senza di voi,
sarebbe rimasto in vita almeno quei pochi mesi. E ora andate pure:
avremo occasione di rivederci”.
Concludendo
vorrei citare alcune parole molto significative del filosofo
Benedetto Croce, che nel 1914 ad un giornale romano rilasciò
un’intervista a proposito dei toni accesi e degli stati d’animo
aggressivi diffusi in una parte della popolazione : “...
credo che, a guerra finita, si giudicherà che il suolo
d’Europa ha tremato non solo sotto il peso delle armi, ma anche
sotto quello degli spropositi. E i Francesi, Inglesi, Tedeschi e
Italiani si vergogneranno e chiederanno venia per i giudizi che hanno
pronunciato, e diranno che non erano giudizi ma espressioni di
affetti. E anche più arrossiremo noi, neutrali, che spesso
abbiamo parlato, come di cosa evidente, della barbarie germanica. Fra
tutti gli spropositi, frutti di stagione, questo otterrà il
primato, perchè certo è il più grandioso”.
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