martedì 3 dicembre 2013


C’è a Trieste una via dove mi specchio
nei lunghi giorni di chiusa tristezza:
si chiama Via del Lazzaretto Vecchio



Questa targa la possiamo trovare oggi ai due ingressi dell'attuale via del Lazzaretto Vecchio. I versi sono del poeta Umberto Saba, che nel suo Canzoniere, si sofferma a descrivere le sensazioni, i profumi e le attività che si svolgevano in questa, un tempo, operosa strada cittadina. Via del Lazzaretto Vecchio era una strada piuttosto lunga, che da Piazza Grande, parallelamente alle rive, raggiungeva l'antico lazzaretto di S. Carlo, il quale, in seguito all'edificazione di quello di Santa Teresa, prese il nome di vecchio, appunto. La strada era in qualche modo separata a metà del suo percorso dalla Piazza Giuseppina, oggi conosciuta col nome di Venezia, per proseguire poi in quella che attualmente è la via stessa.
La parte che da Piazza Grande raggiunge Piazza Giuseppina, a seguito della laboriosa opera di rimozione della memoria e di ricostruzione della storia secondo tecniche ben mirate, che nel periodo immediatamente successivo all'ingresso dell'Italia a Trieste e subito dopo nel triste ventennio, vengono messe in atto, mezza via del Lazzaretto Vecchio diventa via Luigi Cadorna. Allo stesso modo, la gran parte delle strade cittadine subisce la stessa sorte. Allo stesso modo i nomi originari dei borghi e degli agglomerati urbani di origine slovena subiscono la stessa sorte. Allo stesso modo una gran parte dei cognomi dei residenti delle nostre zone subisce la stessa sorte. In breve la città assiste a un cambiamento forzato e forzoso di quelle che sono le sue peculiarità specifiche, della sua storia, delle sue origini, delle sue tradizioni. Di questo molto si è scritto e molto si è detto e molto ancora dovrà inevitabilmente venir chiarito. È evidente che l'effetto, se nell'immediato ha una sua specifica valenza, continua ad agire nel profondo delle generazioni future, che si trovano in equilibrio su una corda tesa, fra un'identità confusa e spesso antitetica di legame con un passato che inevitabilmente ha le radici divelte e un futuro che si poggia sulla menzogna. Ma non è di questo che adesso voglio parlare. Concentriamoci piuttosto, ritornando dopo questa doverosa premessa, alla figura che volevo prendere in esame. Luigi Cadorna e la logica legata al voler mantenere una via a lui intitolata, come nel caso di Trieste, o una stazione ferroviaria, come a Milano, o ad altri casi analoghi. Chi era dunque, questo personaggio così legato alla storia italiana, ma anche, di conseguenza, alla storia triestina e a quella dell'impero? Capo di Stato Maggiore dell'esercito italiano dagli inizi della prima guerra mondiale fino alla disfatta italiana di Caporetto. Figlio d'arte. Un po' come Mozart o Puccini, se vogliamo, ma mentre i secondi si occupavano di tradurre in musica i loro stati interiori, il primo tendeva piuttosto a giocare con la pelle dei suoi soldati.
Il capostipite della famiglia, anche lui Luigi, ufficiale dell'esercito sabaudo del Regno di Sardegna, fedelissimo di Vittorio Emanuele I, combatte contro Napoleone, suo figlio, Raffaele, capitano nella guerra d'indipendenza (1848-49), diventa in breve generale e soffoca nel sangue la rivolta palermitana del 1866 e subito dopo quella dei contadini e manovali emiliani, che protestano per la nuova tassa sul macinato.

 Nel 1850, nasce finalmente il nostro eroe e naturalmente, anche lui, intraprende la carriera militare. Sottotenente nel 1866, molto legato, in maniera quasi puntigliosa, all'esteriorità della vita militare. Voglio citare le parole tratte dal testo di Della Bona, “Grande Guerra, Piccolo Generali”, dove il Generale, ancora sottufficiale in quel periodo, risulta un pignolo, quello sì, aggrappato a regole e regolette tanto da pretendere punizioni per le guardie che «lasciavano a desiderare» in servizio o per gli ufficiali che si vestivano fuori ordinanza. Grande rigore e disciplina, dunque, che per un militare non guasta, ovvio. Peccato soltanto che disciplina e rigore venivano da lui interpretati a senso unico. Assolutamente incapace di assumersi le proprie responsabilità nel caso in cui le critiche venissero rivolte a lui. In quel caso era bravissimo a scaricare le colpe sui suoi sottoposti, pratica che nel corso degli anni poi fa diventare una vera e propria arte. Nel 1910 viene designato come comandante della II armata in caso di guerra e nelle manovre a Monferrato, nonostante la consistenza dello schieramento dei reparti, che avrebbe dovuto portargli una facile vittoria, subisce una sonora sconfitta da parte dello schieramento del Generale Canova, che viene poi, ovviamente, preferito a lui come comandante del contingente in Libia. E arriviamo alla viglia del conflitto mondiale. Capo di Stato Maggiore viene nominato il generale Alberto Pollio, preferito a Cadorna anche grazie alle parole di Giolitti: Ho scelto Pollio che non conosco Perché Cadorna lo conosco. Ma il generale Pollio dura poco. Nel giugno 1914 un infarto lo stronca. Insomma, a questo punto, le strade della gloria per il buon Cadorna si spalancano e le sue dichiarazioni pubbliche tendenti a dimostrare le difficoltà oggettive di un'eventuale entrata in guerra, vanno a cozzare con quello che oggi si può tranquillamente leggere nei suoi diari: piccole idee, piccoli uomini, guai, se non sapremo osare. Intanto che si giocano le sorti di centinaia di migliaia di poveri diavoli, il nostro eroe, e riflettiamo su questo, acquista un consistente pacchetto di azioni dell'Ansaldo. Ansaldo vuol dire acciaierie, vuol dire armi. Vuol dire forniture militari. Micidiale! Il binomio Ansaldo Cadorna verrebbe oggi considerato con indignazione uno scandaloso “conflitto di interessi” è ovvio. Il buon Cadorna si occupa degli ordini delle forniture che, nel momento stesso in cui vengono consegnate e pagate, vanno a incrementare i dividendi e il suo personale tornaconto. Inezie. Cose da uomini di mondo, ovviamente. Non ci perderemo mica dietro a queste sciocchezze, vero? Ma andiamo avanti. Il nostro, ma come mi piace chiamarlo eroe, pubblica un volumetto di strategia militare che già dal titolo (attacco frontale) non lascia presagire nulla di buono. Attacco frontale, tradotto in un linguaggio meno retorico e forse più realista, significa all'assalto, senza discutere!. E come la mettono in pratica, poi, i suoi sottoposti, questa geniale tattica guerresca e i fanti e i bersaglieri, aiutati dalle generose dosi di grappa e dalle carabine dell'arma puntate alle spalle non hanno mica molta scelta. Ma questa è la guerra, che ci si potrà mai fare. E così, tra un assalto e l'altro, si arriva a Caporetto, passando anche, me ne stavo quasi dimenticando, attraverso quella triste pratica che viene definita decimazione, della quale nessun esercito in guerra ha raggiunto il triste primato di quello dei Savoia sotto il suo comando.
Decimazione, o come più gentilmente veniva definita, giustizia sommaria. Giustizia, come no? Ci sono tantissimi documenti che mettono in evidenza l'attuazione della pratica di giustizia sommaria tra i soldati italiani. A volte basta una protesta, una richiesta di riposo, un ritardo al rientro dalla licenza. Ma capisco, la disciplina fra le truppe va mantenuta. Se si vuole arrivare alla vittoria mica si può transigere, giusto? E poi chi lo va a spiegare al consiglio d'amministrazione dell'Ansaldo? No no. Per carità. Disciplina e tattica militare, questo ci vuole e una buona dose di attacchi frontali e Cadorna questo lo capisce proprio bene e vuole vederle ben dall'alto le sue truppe, tanto che nelle lettere a casa descrive le sue gite sul Matajur da dove si gode una magnifica vista su tutto il campo di battaglia. Insomma, a conti fatti, il nostro ometto, qui, non è che proprio ci faccia una gran bella figura. Decisamente no e dal momento che in più città la memoria storica sta crescendo e sempre più spesso in Italia ci sono comitati di cittadini che si rivolgono ai consigli comunali, per togliere il nome di questa vergogna da strade, piazze e stazioni, mi (e vi) pongo una domanda. Perché da noi, no? Proprio qui a Trieste, dove, comunque l'esercito dei Savoia era nemico, dove comunque i nostri ragazzi, che oggi in realtà sono i nostri antenati, stavano dall'altra parte della barricata, proprio qui, dicevo, dobbiamo continuare, non soltanto a mantenere inalterata una toponomastica scandalosa, ma insistere su questa senza porci il minimo dubbio? Cominciamo a capire chi siamo veramente, cominciamo a guardare in faccia la realtà. Basta nascondersi dietro paraventi retorici che servono soltanto a mantenere viva l'illusione che le cose siano inalterabili e inalterate. Trieste ha una sua ben precisa fisionomia. È una fisionomia particolare, unica. Senza questa sua unicità Trieste è destinata a sparire. Ne siamo consapevoli?

Jakob

3 commenti:

  1. Che Trieste abbia una via intitolata a Cadorna per ricordarlo quale principale responsabile della disfatta di Caporetto.?
    Piacerebbe che fosse così... :D

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    1. purtroppo per lui resterà nella memoria come un orrendo macellaio

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  2. La nostra famiglia Olivari proveniente da Trieste si riconosce in ciò che è stato scritto in quanto abbiamo firme dei nostri bisnonni a nome Glivar... molto interessante!

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