volete leggere qualcosa ai vostri figli? questo splendido ritratto
di Trieste, scritto in punta di penna dal geniale tocco di
Carlus Cergoly, che qui riportiamo in parte, tratto dal volume Trieste
provincia imperiale, testo fuori catalogo e oggi pressochè introvabile.
buona lettura!
Carolus Cergoly
il pianeta Trieste
(estratto)
Dove l'Adriatico finisce nel suo
estremo Nord in una curva di questo mare incantevole e suadente, si
trova Trieste, anzi il Trieste, come lo chiamava nei tempi antichi la
gente antica.
Il gran porto di mare, il porto
che serviva tutto l'entroterra dell'Impero, il gran porto austriaco
pieno di vita, di giovinezza e di mare. Trieste un'immagine del
mondo, hohò Trieste città gentilissima e mercantile, città ponte,
odori di spezie e di coloniali, Trieste pacifica e domestica,
ombelico del mondo oh pianeta Trieste.
Trieste città fedelissima e
immediata all'Impero col suo Imperatore Signore di Trieste... e
allora?
E allora? C'era una volta una
spruzzaglia di povere case, di poveri pescatori che pescavano in un
mare ricco di pesci e di sirene con povere reti tutte buchi, rattoppi
e strappi.
Dietro a queste povere case una
manciata di altre povere case di poveri agricoltori con poveri
campicelli tutti polvere di calcare in frantumi di bora.
E questa povera gente si voleva
bene volendosi bene andava d'accordo un accordo tutto in viola
d'amore.
Gli agricoltori con occhio lucido
di verde guardavano il mare e i pescatori con occhio fresco di
salsedine guardavano i campicelli di calcare in frantumi.
Poi tutti guardavano il sole
quando si sveglia e quando va a dormire e s'inchinavano a questo sole
che fa cantare gli uccelli e mette i pesci in allegria di nuoto, come
fosse un grande pescatore o agricoltore vestito di raggi in splendore
di polvere d'oro.
Un giorno Net il pescatore e Past
l'agricoltore si accorsero che il sole aveva viso d'uomo con una
bocca larga come una foglia di salata e questa bocca parlava e
diceva: Net e Past io sono il vostro dio Triopa e vengo da lontano
dall'Asia e mi piace nascondermi vestito in figura e montura di sole.
Net e Past si buttarono per terra
e dissero: o nostro caro dio Triopa noi ti onoreremo mattina e sera
ma tu devi farci saltar fuori da questa nostra miseria, darci buone
reti buone vanghe, pesci d'argento e frutti di prima rugiada.
E tutta la gente di mare e quella
di campo lo invocavano quando Triopa in montura di sole si alzava al
mattino e alla sera quando stanco, sempre in montura di sole, si
metteva dentro le fresche lenzuola mentre suo cugino Morfeo gli
cantava la ninna nanna.
Tutti i Net quanto tutti i Past lo
invocavano e dicevano: Quando sorgi e quando tramonti o nostro Triopa
riempi le nostre case terrene e marine della tua bellezza perché tu
sei bello e potente. Quando splendi le nostre povere case sono piene
di gioia e le pecore spiccano salti di gioia ed i pesci nel mare
tutti un guizzar e scivolar d'argento. Questo dicevano quasi cantando
e dondolando i Net ed i Past marini e terreni; il buon e caro Triopa
sentendosi così lodato e onorato cominciò a dare una mano di
fortuna a tutti i Net e a tutti i Past che vivevano nella estrema
curva del mare Adriatico sempre incantevole e suadente.
Lentamente la gente cominciò ad
essere meno povera e qualcuno già cercava di arrampicarsi sul
gradino del benessere e qualche altro su quello del benestante.
Le case marine e terrene
cominciarono a moltiplicarsi a farsi di bella facciata e dentro
confortevoli con focolaio e lucerne a tre e anche a cinque becchi.
Barche perfette di prora
tagliamare, reti senza strappi e tutte un ben pigliapesci, vanghe,
vomeri e finalmente pastini tutti a pali di vite e ricche brente in
cantar di vendemmia.
Ah questo Triopa diceva Past e
diceva Net è stato per noi estremamente benigno ed in una notte
piena di stelle settembrine decisero in suo onore di chiamare questa
spruzzaglia e manciata di case dalle belle facciate e poste
nell'estrema curva dell'Adriatico: Trieste. Poi prima di andare a
dormire Net regalò a Past un gran bel pesce tutto squame azzurre e
argento e Past un fiasco d'arrubinato vino torchiato sui pastini dove
soffia il vento azzurro caldo del nord est, il vento che purifica.
Trieste, in onore di Triopa in
figura di sole ma con il correre del tempo i dotti cominciarono ad
arzigogolare le più contraddittorie opinioni su Trieste in
derivazione del dio Triopa e questa Trieste chi la faceva derivare da
radici greche, latine, celtiche, sanscrite, altri dalla parola
fenicia Tarscisch altri dallo sloveno Terg o anche Trst che vuol dire
mercato e anche canna palustre.
Anche Fazio degli Uberti volle
dire la sua scrivendo nel suo dittamondo: “E questo nome udì che
gli era detto – Perché tre volte ha tratto la radice”.
Il borgo triestino è senza mura
di difesa perché è ancora un borgo povero ed essendo povero non ha
nemici.
I triestini con il loro lavorare
di muscolo e di cervello sono sempre meno poveri, molti sono già nel
cerchio del gran benessere altri nel gran cerchio del benessere e
altri ancora come tredici famiglie si considerano ma di nascosto, già
di tenor di vita ricchissimo.
Le tredici famiglie o le “tredise
casade” eccole nei loro cognomi: Argento, Basejo, Belli, Bonomo,
Burlo, Cigotti, Giuliani, Leo, Padovino, Pellegrini, Petazzi, Stella
e Tofani.
Erano tutte, per l'epoca, famiglie
ricchissime ma molti figli erano diventati ancora più ricchi per
l'insegnamento dei padri poveri: “Fioi attenti che i soldi xe
bezzi”.
Così dicevano e così
insegnavano.
Il signor Cigotti come del resto
il signor Petazzi ed il signor Basejo nascondevano le loro robe ed i
loro bezzi non per avarizia ma per non essere “parlai” dalla
gente di media e bassa condizione sociale.
Le tredici casate erano ricche
perché erano riuscite ad avere il monopolio ed il privilegio di
vendita dei loro vini cresciuti e torchiati sui pastini tutti gradini
in girotondo con vista sul mare.
Si erano fatti anche degli stemmi
chi mettendoci un'aquila chi un bocciolo di rosa, chi degli scacchi,
chi una torre.
Con il Tempo Trieste da borgo
arriva al villaggio fortificato perché c'è già qualche cosa da
difendere e poi sempre con il correre del Tempo ecco Trieste dirsi
città con le sue mura, le sue torri, le sue balestre e lance e spade
e spadoni a due mani e al calar della notte il suo Mandracchio pieno
di barche benchiuso e difeso da forti e grosse catene di ferro.
Dietro le porte benserrate al
calar del sole con le guardie notturne e sulle torri specialmente
vicino alla caditoia dalla quale si gettava sugli assalitori olio
bollente e polvere di calce, arcieri e balestrieri i quali durante i
tempi di nebbia e di umido dovevano stare attenti che questa nebbia e
questo umido non togliesse elasticità alle corde delle balestre.
Queste erano le piccole difese e
le piccole offese di una cittadina in via di opere in progresso.
Anche le tredici sono sempre più
in progresso di soldi o come più finemente dicevano i Bonomo di
valsente.
Gli appartenenti alle tredici
casate ogni giorno che passava si tenevano su su sempre più su tanto
che un bel giorno decisero di chiamare da un paesetto fuori mura il
paese di Nabresina uno scalpellino di nome Frane e di cognome Kerpan
perché scolpisse di buona modellatura i loro stemmi sopra i portoni
di casa.
Frane Kerpan che aveva cava a
Nabresina tira su stemmi e stemmi e fa un lavoro da autentico mastro
scultore, tutti contenti i tredici bene della città e pagarono al
Kerpan senza contrattare quello che il Kerpan domandava.
Gli stemmi facevano una bella
figura sui portoni delle tredici case e la gente diceva ma guarda
come se la spassano bene questi stemmati grazie ai pastini e relativo
vino bianco rosso e del terrano che è un vino rosso e forte come il
sangue d'un drago innamorato in fondo di dolina.
Trieste comincia a far gola ai
veneziani quanto ai pieni di cotole e dalmatiche i reverendi
patriarchi di Grado e di Aquileia.
Fa gola perché Trieste non è più
borgo, non più villaggio ma Trieste è città piena di mare
profondo, con un porto ben fido, con tanto di mandracchio e interna
darsena e banchine d'approdo e bacini di carenaggio.
Gli occhi tutti ruggiti di leone
alato, gli occhi tutti incenso dei Patriarchi guardano a Trieste.
Occhi di falchi sconti in torre.
Bisogna preoccuparsi, bisogna
difendersi.
“Ordiniamo e vogliamo che
suonandosi campana a stormo ogni persona dai quindici ai sessanta
anni debba correre in Piazza e mettersi agli ordini del capitano”,
che poi a sua volta era agli ordine delle tredici casate.
In porto cominciarono ad arrivare
e ad attaccare bastimenti di tutte le specie e qualità: bragozzi,
batane, paranze tartane e brigantini e golette e dal sottomare le
turche caramussale e dal sopra mare le navi kaag dall'Olanda.
Sbarcano e imbarcano merci e tante
altre “robe” che fanno l'uomo e la donna felici di vivere e di
godere la vita.
In un primo giorno di marzo arrivò
un convoglio da Rodi, e verso i primi di aprile sette navi al comando
del capitano di lungo corso il signor comandante Phlebas che in una
locanda delle rive dice all'oste buttando giù un bicchiere di
“Terrano” dice ma questa vostra Trieste è veramente la gioia del
viaggiatore.
Ma questo andare e venire di
barche, di battane, di bastimenti, questo caricare e scaricare le
merci buone e pregiate che dà il mondo disturbava tanto la
Serenissima quanto i Patriarchini e allora spedizioni punitive più
che guerresche, incendi di case, distruzione di pastini e un continuo
sabotar di moli, di darsene e remengar del mandracchio, rapinar di
merci nei magazzini e piccoli e anche grandi atti di pirateria in
mare tanto di giorno quanto di notte.
La città si difendeva con
coraggio ma era una lotta come diceva il sefardita negoziante Aronne
Morpurgo una lotta tra Davide e Golia.
Cosa fare dicevano i cittadini,
cosa fare dicevano tutti i membri delle casate, che fare contro
questi infami nemici dei nostri traffici e dei nostri commerci con la
gente di tutto il mondo.
Che fare? Si parla e si ragiona
nelle case e nelle piazze, nelle contrade. Dice uno in Piazza Grande
perché non facciamo ancora più opere fortificate perché non
facciamo davanti alle mura un grosso “Rebellin”?
È tutto inutile dice un secondo,
hanno armi che ti sfregolano tutti i “Rebellin” di questo mondo e
dice ancora la bella Tecla e la gaia Giustina perché non cerchiamo
di parlamentare con questi due draghi sputafuoco noi gente pacifica e
domestica.
Sì d'accordo dice Net e lo dice
anche Past sì siamo gente pacifica e domestica ma non tanto pacifica
e domestica da calar le nostre braghe e di far alzar le vostre cotole
di fronte a questi draghi dalle code violente e velenose.
E allora i cittadini decisero di
affidare il che fare ai rappresentanti delle tredici casate perché
gente navigata e di parola pronta e pratici nel trattare.
Erano d'accordo di dare carta
bianca per trattare anche la comunità ebraica capeggiata dal
sefardita Aronne Morpurgo e dal lamentoso askenasita Geremia e
d'accordo la comunità greca con a capo l'ortodosso Spiridione
Karamanlis e suo cugino Pericle Papadopulos.
Gran giornata quella del raduno
nel gran cameron comunale dei rappresentanti delle tredici casate.
Tutti sono uguali tra di loro ma
uno è molto più uguale degli altri. Il più uguale di tutti gli
uguali è il vecchio Corvo Bonomo dalla barba color perla marina e
graziosamente spartita come la coda della cometa che gli astronomi
chiamano Barbata.
Il lungo e solido tavolone in
mezzo al cameron e con ordine bendisposto sei rappresentanti di qua e
sei rappresentanti di là e a capotavola solenne come un monumento
il vecchissimo Corvo Bonomo.
Ogni rappresentante della “casada”
ha portato il suo balestriere ed il donzello, che in altri comuni
chiamano pomposamente paggio con una gran brocca piena di vino per
tirarsi su quando c'è bisogno di tirarsi su.
Corvo Bonomo il nestore delle
tredici casate per i tempi che correvano era uomo che vede moderno,
che vede lontano un uomo pieno di ardente autentico spirito
adriatico.
Donzello, dice Corvo Bonomo,
riempi il mio “Nautilus” di vino di pronta beva ed il donzello
riempie il bicchiere a conchiglia di un vin chiaretto che si torchia
su a Vipacco un vino vellutato un vino proprio di pronta e lunga
beva.
Pomeriggio del 20 settembre del
1382 si comincia a discutere s'è meglio calare le braghe ai
veneziani o meglio calarle ai reverendi patriarchini di Grado e
Aquileia.
Calar le braghe dice Tofani vuol
dire addio per sempre ai nostri traffici, alle nostre barche, ai
nostri pastini viniferi, a tutto il nostro vendere e comprare e
allora addio Trieste sempre pacifica e domestica. Calar braghe o
tirar su cotole, questo parlar dice Corvo Bonomo non esiste nel mio
lessico parlar, Trieste e d'intorni non devono essere terre di
nessuno per ruberie e altre azioni manigolde. Io vi dico e questo lo
dice Corvo Bonomo col dito alzato come una piccola daga, io vi dico
che noi abbiamo bisogno di un protettore che ci protegga tanto dai
sanmarchini quanto dai patriarchini ma questo protettore deve solo
proteggerci e mai farla da padrone.
Sì sì dice Basejo, Corvo ha
ragione il suo ragionar è sapienza e buonsenso, sì sì, dice il
giovane Argento, Corvo ha ragione abbiamo bisogno di un protettore
non di un padrone, uno che ci protegga contro le masnade dei leoni
alati e degli sgonnellanti patriarchini tutti incenso e frode. Io
penso dice ancora il vecchio Corvo che un buon protettore io lo vedo
nel duca Leopoldo d'Austria ch'è uomo con la testa ben incollata sul
collo e sulle spalle, la mano tesa senza guanto e con le gambe ben
piantate in terra e stivalate alla bulgara in speroni d'argento.
Tutti bevono ancora un bicchiere
di vino e lo beve a piccoli sorsi anche Corvo e poi senza che nessuno
si accorge s'addormenta e par morto come se fosse già incielato.
Sogna quietamente sogna e sul suo
bel viso si pittura la calma, la pazienza, la benevolenza, la
concentrazione, la gioia.
Corvo Bonomo sogna e deve sognare
sogni in mantello d'oro perché in certi momenti la sua faccia è
tutta interiorità come chi riposa guardando il cielo in un campo di
grano di color luna d'agosto.
Corvo, il buon Corvo Bonomo si
trova davanti ad una scala e non capisce se questa scala è posta in
banda, in palo, s'è sostenuta o appoggiata; comincia a salire la
scala tutta color perla di mare proprio come la sua barba e lui
comincia a salire piolo su piolo e questi pioli sono impazienti con
polvere di luna e devono portare ai cieli cristallini e poi ai cieli
d'Olimpia.
Corvo nuota tra le nuvole; quelle
a pecorelle, quelle barcone, quelle procellose, quelle d'uragano e
quelle poi a tutto riposo nuvole a rossore.
Hò, hò dice Corvo anche i venti
mi conoscono e mi salutano e per primo lo saluta quello magnifico
Maestrale, che soffia caldo da nord est, lo saluta il Ponente e suo
cugino il Ponentino e poi il Greco ma quello che purifica l'aria di
Trieste e rallegra e intenerisce il cuore di Corvo è il vento
impetuoso della Bora che fa gonfiare le onde e le vele e fa cantare e
ballare le bandiere di tutti i colori del mondo, la Bora che fischia,
che urla, che ulula, che canta, che ronfa, che soffia gagliarda, che
refola il cuore di Corvo Bonomo, la Bora, la Bora, la sua cara comare
siora Bora.
Continua a salire Corvo con
dignità propria della sua “casada” quando uno stormo di “garruli
di Boemia” lo rallegrano con canti di cingallegre che il vecchio
chiama alla triestina “parussole”; subito dopo ecco davanti ai
suoi occhi un triangolo nero schiamazzante e gracchiante di corvi che
lo salutano come loro gran patron e parente nostro e sbattono le ali
e creano un vento che sventola la barba sua come una bandiera in
campo pacifico.
Arrivato Corvo all'ultimo piolo,
ecco, dice dentro di lui. Sono in un prato incredibilmente verde, non
troppo grande ma neanche troppo piccolo un prato insomma a misura
giusta d'uomo.
In mezzo al prato un trono da
imperatore tutto lingue di fuoco in gloria di bengala e sul trono un
uomo in figura di sole.
Corvo Bonomo lo guarda e capisce
subito ch'è il gran buon dio Triopa fa un piccolo inchino e dice:
sono contento di conoscerlo di persona per dirle il mio grazie a nome
di tutta la triestinità per quanto avete, signor dio Triopa, fatto
per la città di Trieste che così ricorda il vostro nome.
Triopa lo saluta agitando le
braccia luminose come raggi tiepidi in riposo sui pastini che fanno
il buono vino e dice: vi ho voluto aiutare perché eravate e lo siete
anche oggi, bravi, e pieni di iniziative e buona volontà di
lavorare. Per proteggervi e per aiutarvi ero venuto da lontano, ho
fatto quello che ho fatto ma oggi so che per vivere sempre più in
grande nel futuro dei tempi voi avete bisogno d'un protettore che non
diventi un padrone.
In verità delle verità
nient'altro che verità dice Triopa io ti dico saggio Bonomo che un
protettore per la vostra gran bella e dolce città non può essere
che il signor duca Leopoldo il meglio che potete trovare.
E Triopa spalanca un grande
portone e dice a Corvo: guarda osserva quella che sarà la città con
il correre del Tempo sotto gli sguardi benevoli della Casa d'Asburgo.
Corvo guarda e meraviglia delle
meraviglie vede una Trieste meravigliosa mille volte più grande di
quella dove lui beve nel suo nautilus il vino di pronta beva.
Una Trieste piena di mare e sulla
sua schiena tutto un pieno di navi che arrivano, che partono e tutte
in gran pavese per i porti del mondo con nelle stive le “robe”
che fanno bella la vita e gonfia la borsa di svanziche.
E Corvo non si stanca di guardare
questa Trieste in corsa col Tempo piena di stregonerie e d'incanti e
tante case alte dalle persiane bianche, con strade e piazze piene di
gente di pelle di vari colori e tutte a lavorar sul mare e su la
terra, nei fondachi e nelle botteghe a fabbricar gli oggetti che
fanno bella e comoda la vita.
Corvo è tutto un tremar
d'emozioni e la sua barba si agita come se fosse un'ala di cherubino
in nervi.
Corvo improvvisamente sentì un
gran rumore era Triopa che aveva chiuso il portone, gli parve di
precipitare anzi di rotolare lungo la scala dai pioli impastati con
polvere di stelle e si trovò seduto sulla sua sedia e la prima cosa
che fece fu questa d'ordinare un poco di vino per tirarsi un poco su.
Tutti lo osservavano pieni di
curiosità e Corvo Bonomo dice: sì ho sognato un sogno pieno di
felicità e di miracoli, ma ora che ci penso era un sogno ma un sogno
fortificato di realtà o forse meglio una realtà fatta sogno.
Nel gran cameron tutto è silenzio
e Leo e Burlo dicono: Bonomo racconta e tutti gli altri fanno coro di
racconta racconta e Corvo Bonomo comincia a raccontare: sono salito
con dignità una scala che sembrava quella di Giacobbe senza angeli
ho visto e parlato con Triopa, ho visto corvi ho visto “parussole”
poi il caro buon dio Triopa che la sa lunga su di noi e anche dopo di
noi mi ha fatto guardare a portone spalancato quello che sarà
Trieste dopo che il Tempo avrà corso per secoli se noi ci faremo
proteggere dagli Asburgo in rappresentanza d'oggi dal duca Leopoldo
che abita a Graz. Ho visto e ben visto questa nostra Trieste piena di
gente dalla pelle di vario colore, ho visto muoversi grandi
bastimenti che andavano avanti senza vele ma solo con il fumo come
fossero vulcani, ho visto robe da apprendisti stregoni insomma ho
visto una città che tutti dicevano è l'ombelico del mondo.
O mia, anzi nostra, Trieste
conclude Corvo Bonomo mia futura grandissima e coccolissima città
con il tuo mare celestino ed il tuo Carso tutto calcare bianco come
il mantello d'una fata celtica. Per tutta la mia vita, avrò di
questo mio sogno uno scrigno tutto di memorie su lastra di marmo.
Signori delle “casade”
concludeva Corvo Bonomo senza pensamenti, senza esitazioni subito via
a Graz dal duca Leopoldo per pregarlo di volerci proteggere e
difendere contro le prepotenze dei sanmarchini e le mascalzonate dei
patriarchini autentici farabuloni.
Tutti risposero di sì presto a
Graz dal signor duca Leopoldo.
I donzelli corrono a tirar fuori
dalle stalle i cavalli a sellarli e a preparare le robe per il
viaggio; anche i balestrieri attenti ad ingrassare le corde delle
balestre.
Anche i cani vollero seguire i
padroni e tutti festosi con le code ad antenna e pieni di morbin
saltavano abbaiavano facevano spettacolo di canizza ch'è sempre
spettacolo di grazia e d'armonia.
Salirono a cavallo e Corvo Bonomo
sul suo ginetto guidava il drappello lungo le strade cittadine e la
gente salutava e diceva tornate presto con la protezione del duca in
pergamena.
I cavalli andavano al passo ma
appena usciti dalla porta di Donota un colpo di speroni e via al
trotto e poi al galoppo e poi ancora di carriera come se andassero
alla carica guerresca in campo turchesco.
E trotta e galoppa e galoppa e
trotta eccoli nella verde Stiria benordinata, tutta pomifera, tutta
luppolo e orologi a cucù.
Entrati a Graz i tredici
smontarono dai cavalli e legarono le bestie tutto fumo di sudore ai
grandi anelli e batterono alla porta del duca Leopoldo, che subito
accolse i triestini con dignitosa ma amabile cordialità.
I rappresentanti delle casate e
dei triestini fecero un piccolo complimento al signor duca e per
primo parla Giuliani: signor duca Leopoldo, dice il Giuliani, noi
triestini siamo gente di poche parole, ma di molti fatti perché una
ne pensiamo e cento e qualche volta anche mille ne facciamo; ora
signor duca dalla bocca del nostro vecchissimo Corvo Bonomo lei
sentirà quello che deve sentire.
E Corvo Bonomo dice al duca, che
in quel tempo non aveva ancora il titolo d'Imperatore e attorno al
colletto il Toson d'Oro lucente come un piccolo sole, quello che
doveva dire per quanto riguarda la protezione e la padronanza. Quando
il Bonomo finì il discorso il graziosissimo duca rispose: bene,
benissimo voi avrete la mia protezione e quella della mia casa
escluso la padronanza e fece chiamare dai servi il suo camerario che
fungeva anche da segretario e da cancelliere.
Quest'uomo dalle tre cariche era
il libero barone Miro Tonkovic croato ma di origine morlacca, di
costumi dalmati cioè aveva occhi tutto mare e gambe forti per il
monte.
Il barone Tonkovic arrivò subito
e cominciò a scrivere con la sua bella calligrafia onciale quello
che doveva scrivere per volontà del duca e dei rappresentanti di
Trieste non ancora ombelico del mondo come la chiamerà secoli dopo
un poeta muscoloso che poetava in lessico triestino.
Il duca legge quello che il
cancelliere aveva scritto e leggono i triestini e poi tutti sotto a
firmare e a mettere sigilli e cordoni: il patto di volontaria
dedizione è fatto.
Un patto veramente vantaggioso per
Trieste tanto che lo storico istriano Giovanni Vergottini scrisse che
con il patto di dedizione alla Casa d'Asburgo “la città riprende
veramente la sua libertà d'azione politica e riacquista la pienezza
delle proprie attribuzioni giurisdizionali...”
Trieste aveva bisogno di un
protettore ma non di un padrone ed il protettore non padrone lo trovò
in figura di sua grazia serenissima il duca Leopoldo d'Asburgo; e
allora evviva tre volte evviva e aria per tutti.
Il patto di dedizione durò la
bellezza di quasi sei secoli, Trieste fu proclamata città
fedelissima e immediata all'Impero e gli Imperatori assunsero il
titolo di “Signore di Trieste”, lo stemma di Trieste con
l'alabarda d'argento ebbe la concessione del capo imperiale ch'è
d'oro all'aquila bicipite di nero spiegata e linguata di rosso e
coronata d'oro.
Sei secoli di fedeltà imperiale
poi sparì nel 1918 in quella catastrofe che scancellò dal mondo il
grande Impero umano e un ordine superiore decade ad un ordine
inferiore, sparita ogni dignità personale e oggi si può contemplare
con tragica angoscia il trionfo del “tumultus”, del disordine e
della violenza.
Firmato il patto di dedizione
tutti montarono a cavallo, salutarono in signor duca Leopoldo e
ritornarono a Trieste a tutto galoppo.
In prima fila sempre sul suo
splendido ginetto Corvo Bonomo con nella borsa le pergamene firmate e
sigillate; diceva a Basejo che gli cavalcava vicino: Pacta sunt
servanda e traduceva per gli altri che non sapevano la lingua latina:
i patti devono essere osservati in modo scrupoloso.
E furono osservati e durarono
seicento anni, seicento anni di scrupolosità.
Arrivati a Trieste stanchi per il
gran cavalcare, tutti si diedero la buonanotte chiusero i portoni con
sopra gli stemmi scolpiti dal mastro Kerpan da Nabresina e sognarono
il duca Leopoldo e altri bei sogni tutti in mantello d'oro, mentre la
guardia con lanterna e alabarda intona la vecchia cantilena: o buon
dio Triopa prega per noi che il fuoco, i sanmarchini ed i
patriarchini non ci tocchino né di giorno né di notte. Dormite
tranquilli che fra breve batterà l'una. Il Tempo continua la sua
corsa e arriva davanti all'Imperatore Carlo VI al quale Trieste
pacifica e domestica elevò un gran bel monumento tutto in pietra
bianca di Nabresina nella sua piazza più bella la Piazza Grande.
Carlo VI, padre di figlia unica di
nome Maria Theresia, era veramente un grande Imperatore con idee, per
dirla alla moderna, un tantino socialiste; credeva e aveva ragione di
credere che per arricchire lo Stato la via più rapida era quella del
commercio e dell'industria e soprattutto il commercio d'oltremare.
E soprattutto le ricchezze
d'oltremare potevano nascere e svilupparsi e ingrandirsi solo con la
creazione di un grande porto di mare e dopo gran pensare questo gran
porto di mare, anche su consiglio del principe Eugenio von Savuà, fu
Trieste.
L'Imperatore fu ben contento del
consiglio del principe Eugenio e relativa scelta e subito si mise
negli affari e fondò con sede generale a Vienna “L'Imperial
Privilegiata Compagnia Orientale” e comprò tante azioni della
Compagnia pensando soprattutto al futuro della sua bella e
intelligente figliola e piena di grazie l'arciduchessa Maria
Theresia.
Carlo VI vedeva lungo e vedeva
largo e proclamò Trieste porto franco e lo proclamò a cavallo del
suo lipizzano di nome Maestoso e fu tutto un batter di mani
illiriche, italiane, greche, turche, alemanne, ebraiche, armene,
francesi, inglesi, olandesi per non parlar delle mani fredde del
nord.
Tutti avanti e sotto a lavorar col
commercio, con l'industria, con l'armamento navale, con le proviande
di bordo, con i cantieri, coi fondachi in odor di spezie e di
coloniali e brigantini e golette e velieri in trionfo di vele a
sbarcare e imbarcare merci e merci per tutti i porti del mondo.
Le allegre bandiere in carneval di
colori sventolano su Trieste ma la bandiera più allegra è quella
che sventola in allegria d'affari sul Porto Franco di Trieste.
Harappa harappa, anche gli
Imperatori muoiono e muore Carlo VI per aver mangiato un piatto di
funghi, piatto, come disse Voltaire che cambiò il destino d'Europa.
Lo cambiò e non solo per l'Europa
ma anche per Trieste e lo cambiò in una piramide di tutto benessere.
Maria Theresia diventata
Imperatrice aprì gli occhi alla realtà del buongoverno e subito
pronta con le sue riforme, le famose riforme teresiane, piene di
illuminismo e di libertà.
E avanti Trieste con il suo gran
porto, con i suoi cantieri, con i suoi arsenali e con il suo navigar
e commerciar con l'oltremare.
La città è veramente e
genuinamente una città sovranazionale con forti influssi di civiltà
mitteleuropea e italiani, tedeschi, slavi, greci, turchi, ebrei,
inglesi, francesi e americani lavorano per l'interesse personale e
per quello dell'Impero.
Nel 1821 l'assessore a Trieste
Giuseppe de Brodmann scriveva nelle sue “Memorie” che non si
“azzardava di analizzare l'indole del popolo triestino, tra il
quale se regna un nodo sociale, questo nodo non è solo che mutuo
interesse delle negoziazioni commerciali perché in un popolo
d'italiani, tedeschi, greci, slavi, levantini, arabi, africani, non
può svilupparsi un carattere nazionale dominante”.
Fintanto che il delirio e le
falsità dei nazionalismi non prevalsero la città ponte, la città
del marinaio Sinbad, la città delle spezie, dei cantieri e delle
locomotive sbuffanti sui grandi ponti di ferro verso l'immenso
hinterland dell'Impero Trieste cresceva a vista d'occhio e il sogno
di Corvo Bonomo giorno su giorno si trasformava in armonica realtà e
anno su anno Trieste sempre più ombelico del mondo.
Questo suo crescere lo si doveva
sì al sogno di Corvo Bonomo ma soprattutto a Maria Theresia che fu
per dirla con Alexander Mahan “uno dei più attivi e sovrani che il
mondo abbia conosciuto e seppe contemplare il suo compito con un
entusiasmo e una serenità di spirito mai superati. Le sue forze
avevano dell'incredibile ma ella le sapeva impiegare in tante cose
diverse che la sua resistenza può essere considerata meravigliosa”.
Per distendersi andava a consumare
una merenda con gli amici al “Peperl” nel Prater e poi via subito
a lavorare davanti allo scrittoio colmo di importantissimi e
ordinatissimi documenti dello Stato Imperiale.
Sorrideva sempre questa
meravigliosa creatura e lavorava fortificata da un delizioso senso
viennese dell'umorismo.
Fu chiesto ad un triestino da un
greco di Salonicco e da un bulgaro del Perin se questa mamma
imperiale di Trieste avesse un monumento ricordo ed il triestino
rispose: nessun monumento perché tutta la città stessa è il più
bello ed il più giusto monumento a Maria Theresia.
Il greco di Salonicco ed il
bulgaro del Perin erano venuti a Trieste come tanta altra gente di
mezzo mondo per apprendere le scritture mercantili e perché si
“dirozzassero” nelle operazioni più materiali del traffico. I
soldi dopo tanto lavorare e faticare molto spesso formavano
considerevoli fortune ed il benessere era diffuso con molto
equilibrio da ago di bilancia farmaceutica.
Il porto giorno su giorno sempre
più florido e cresceva in ragione diretta degli infortuni che
colpivano altri porti d'Europa come i blocchi di rappresaglia o gli
assedi di guerra.
Navigare per i triestini voleva
dire vivere e già nel 1816 due brigantini, queste rondinelle del
commercio, partiti da Trieste furono i primi a passare il Bogaso in
Egitto e per Damiata fino al Bolacco.
La colonia illirica a Trieste
manteneva in attività ben centodieci bastimenti e armatore era il
signor Giovanni Kurtovic che nel periodo di diciotto mesi guadagnò
con questi suoi brigantini la somma di fiorini 1.139.747 una somma
per quel tempo vertiginosa; così a Trieste si facevano gli affari e
la vita era degna di essere vissuta. Arsenali e cantieri varavano e
scivolavano in mare le navi tecnicamente perfette, belle e quelle
destinate ai passeggeri piene di lusso e signorilità.
Gli artefici di tante bellezze e
di tante perfezioni erano noti e apprezzati e ricercati da tutti gli
arsenali e cantieri del mondo. Dopo il lavoro di mente e braccia
distensione e riposo e “ciacolar” e leggere nei cari e quieti
caffè triestini veri primi cugini dei perfettissimi caffè viennesi.
Torno ai tavolini di marmo con
base di ghisa argentata le belle donne di Trieste, alte e di gamba
cavallina, spiritose, amorose, emancipate, affettuose e sportive chi
buttate al biondo, chi al bruno e chi al lucente corvino; ma parlare
o scrivere di queste creature è come voler portare nottolo ad Atene
o violini a Vienna.
La città piace a tutti e piace a
Scipio Slataper (il suo cognome in croato vuol dire penna d'oro) e
sottobraccio alla sua donna Gioietta si ferma prima in riva Grumula
poi sotto la Lanterna e dice; “Io vado per le strade di Trieste e
sono contento che essa sia ricca, rido dei carri frastornanti che
passano, dei tesi sacchi di caffè, delle cassette quasi elastiche
dove fra trina e veli di carta stanno stanno stivati i popputi
aranci, dei sacchi di riso sfilanti dalla punzonatura doganale, una
sottile rotaia di bianca neve, dei barilotti semisfasciati d'ambrato
colofonio, delle balle sgravianti di lana greggia, delle botti
morchiose d'olio, di tutte le belle, le buone merci che passano per
mano nostra dall'Oriente, dall'America e dall'Italia verso tedeschi e
boemi.” Conclude dando un bacio a Gioietta: “Ora l'Adriatico è
nostro.”
Ma Trieste piaceva anche al poeta
triestino di lingua tedesca Theodor Daubler, che alla sua città
natale dedicò più di una poesia: “Presso un azzurro mare
incantato io venni al mondo” e poi ancora “In questa città
cominciò l'essere mio a costruire la sua torre d'enigmi”; e
piaceva anche al romanziere triestino di lingua slovena Vladimir
Bartol con la sua raccolta di schizzi e bozzetti a sfondo
psicanalitico.
Perché Trieste era e dev'essere
una città ponte una città d'incontri delle tre grandi culture:
italiana, slava e tedesca.
E piaceva al gran rabbino
triestino signor Emmanuel Porto autore di un libro pieno di scienza e
dal titolo il Porto Astronomico
che gli valse da parte dell'Imperatore la medaglia d'oro. “Pro
Virtute et Merito.”
E Trieste
piaceva anche al francese Valéry Larbaud perché diceva “Cest une
ville cosmopolite” e concludeva “c'est vraiment Trieste, et non
Venise la capitale de l'Adriatique”.
Ma Trieste
piaceva più di tutti a Charles Nodier l'inviato di Napoleone nelle
“Provinces Illyrienes” per fondare e dirigere la Lubiana il
giornale “Télegrahe Officiel des Provinces Illyriennes” redatto
in quattro lingue: francese, italiano, tedesco e lingua illirica.
Prima di
arrivare a Trieste, Nodier passa per Ginevra, per Torino, e arriva
sulle rive della Brenta cariche di palazzi che minacciano il cielo e
poi a Venezia dai canali immensi e dalle chiese cristiane che si
direbbero costruite dai turchi e poi via presto a Trieste una città
ch'è l'immagine del mondo.
A Trieste è
ospite nella villa del conte Luigi Serini, nelle Dalmazie lo chiamano
grof Zrinski e in quel tempo chi era proprio distinto abitava nel
distretto di Sant'Andrea e dato che il conte Serini era una persona
estremamente distinta non poteva aver villa che solo nel distinto
distretto di Sant'Andrea.
Curiose ma
belle le usanze dei distinti abitanti di Sant'Andrea di far
sventolare sui tetti le bandiere delle loro nazioni di origine nei
giorni festivi e nelle ricorrenze solenni.
Questo signor
conte Serini era persona di idee molto “franciose” ma per quanto
“francioso” non era assolutamente d'accordo che “Le peuple
francais reconnaì l'Etre Suprème et l'Immortalité de l'Ame”.
Su questo, il
signor conte Serini non era per niente d'accordo perché diceva le
religioni sono nate dalla paura e l'uomo ha creato a sua somiglianza
Dio e non viceversa e siccome io sono un uomo sono perciò anche Dio
e per di più con corona, cimiero e lambrechini.
In casa Serini
lo scrittore elegante, l'incorreggibile dissipatore Charles Nodier
scrisse il suo romanzo in cornice triestina Jean Sbogar ch'è
la storia romanticissima di un brigante gentiluomo che rappresenta la
forza e la ribellione sotto le false spoglie di principe Lotario.
Charles Nodier
ricorderà sempre nella sua bella casa di Parigi questa Trieste “ch'è
piena di una grazia inesprimibile, un vero canestro di fiori freschi
come la primavera che posa su di uno scoglio”. Ed il canestro di
fiori fioriva ogni giorno di più perché le divinità marine erano
innamorate di questa città dalle bianche persiane e dai pastini in
profumo di vendemmia.
La popolazione
aumentava di anno in anno grazie anche ai vari decreti teresiani in
favore del Porto Franco che non voleva dire ricovero di falliti o di
avventurieri ma asilo a quanti avevano voglia di far bene e ben
lavorare.
C'era un
ordine che non permetteva che gli “esteri” esercenti la mercatura
potessero venir molestati negli “averi” e nelle “persone” per
“debiti” contratti fuori dallo Stato e aggiungeva quest'ordine
che “non si doveva arrestarli o punirli per alcun delitto commesso
fuori dalle Province Austriache” ed è probabilmente da questo
ordine la nascita del detto popolare “Triestin mezzo ladro e mezzo
assassin”.
Curiose e
interessanti certe domande di “asilo”; eccone una tra le tante
tirata fuori dalla polvere dei polverosissimi “Archivi di Stato”.
“Infinite
domestiche disgrazie e la recente fatalità incontrata di rendersi ad
un tratto insolventi parecchi dei suoi creditori hanno obbligato il
sottoscritto a non poter 'in giornata' soddisfare i suoi debiti e ad
abbandonare, per evitare molestie, la propria città. In tal dolorosa
circostanza implora che gli venga accordato il 'Porto Franco' che
egli tanto più spera di ottenere in quanto che in mezzo alla
sfortuna ha il conforto di non avere debiti alcuni nei felicissimi
Stati della Monarchia”.
Questa era
Trieste, città dalle persiane bianche come le ali dei gabbiani,
possesso immediato dell'Impero con il suo Imperatore dagli occhi
azzurri come la porcellana e “Signore di Trieste”.
Oh, Trieste,
città piena di mare suadente e incantevole, tutta prore spaccamar e
riccioli d'onde fino alle Americhe del Nord e quelle del Sud e ancora
spaccaonde sulle coste del Malabar e del Coromandel e ancora
spaccaonde della Baia del Bengala e della Penisola del Gange.
E nelle
panciute stive tutte ben ordinate e stivate seterie, porcellane,
droghe, ambra, avorio, e panzucchero di Cuba e ancora piante rare,
tabacco color barba di sultano e pelli pregiate di tigri, di pantere
e di leopardi per la felicità delle belle donne imperiali.
Lavorare,
costruire, commerciare e sempre ancora lavorare, così è fatta la
vita triestina, e nei tempi antichi il signor Ulrich Hutten in visita
all'emporio, vedendo tanto lavorare, disse al suo amico Melantone
“Vivere è gioia”, e aveva ragione, perché per i triestini
lavorare voleva dire vivere con gioia.
Un gran
daffare in tutto il mondo, con questa Trieste, e in modo particolare
per i signori Palmer dell'Agenzia di Nuova York e per il signor
Mehemet Alì a Panama e suo cugino a Suez.
Ma a “ buona
o a varare vapori e a far “zoghi” di borsa a fare insomma
“comerzi e boni afari” nei “scritoj” di Agenzie Marittime o
di Import-Export; ma si faceva anche della gran bella cultura, si
leggeva molto e in molte lingue, si faceva musica tanto classica che
di divertimento, e tutti sapevano quello che d'interessante nasceva a
Vienna, a Parigi, a Milano, a Londra a Zagabria e a Monaco di
Baviera.
E questo
perché la città è stata sempre una città di cultura mitteleuropea
per non dire cosmopolita.
Solo in questa
atmosfera potevano nascere uno Slataper, uno Svevo, un Saba, un
Giotti.
E la gente di
buonsenso dice: ma guarda un po' questo Ettore Schmitz che vende
colori e vernici segrete alle navi di Sua Maestà Britannica e con un
colpo di bacchetta magica ti diventa il romanziere Italo Svevo, uno
scrittore dai bottoni duri di marca europea.
E la gente di
buonsenso continua a meravigliarsi e dice: ma guarda un po'
quell'Umberto Poli che vende libri e stampe antiche e ti salta fuori
come un misirizzi autore di un Canzoniere dove da autentico
poeta rassomiglia Trieste ad un ragazzaccio con le mani troppo grandi
per regalare un fiore. Che poi quell'Umberto Poli si firmasse Umberto
Saba, è marginale.
E dice ancora
questa gente di buonsenso: ma guarda un po' questo impiegatuccio
mezze maniche di Virgilio Schoenbeck, con moglie russa, che scrive
poesie tutte colori e capricci in dialetto triestino e si firma
Virgilio Giotti. Guarda un po' quante sono le sorprese della città.
Ahinoi, nei cieli imperiali si sente il trottare dei quattro
cavalieri dell'Apocalisse con sulle loro bandiere le parole tutte
sangue che sono stultitia, tumultus,intolleranza, fanatismo,
delirio, odio, massacro.
Dicono i
gialloneri udendo il trotto e guardando le bandiere tutte sangue:
ecco, dall'umanità scendiamo alla nazionalità e alla bestialità,
un ordine superiore decade a un ordine inferiore. La guerra, il
rombar dei cannoni, i morti, l'urlar dei feriti, fuoco e rovine.
L'Impero
sconfitto, l'Impero annientato, l'Impero sparito dall'Europa.
L'ultimo Imperatore voleva la pace, era disposto a fare grandi
concessioni ai nemici dell'idea imperiale, ma era una voce che
gridava educatamente nel deserto. L'Imperatore cercava di salvare il
salvabile, e di salvare specialmente la sua diletta Trieste. “La
città di Trieste” egli decreta, “sarà nominata Città Libera
Imperiale, verrà dotata di un'Università, e otterrà un nuovo
statuto municipale che, mantenendo i diritti di piena autonomia di
cui essa attualmente gode, assicurerà pure il carattere italiano
della città. La zona attuale del Porto Franco sarà mantenuta e in
caso di necessità estesa”. Ma la sua voce è solitaria, come
solitaria e sorda è la voce del socialista triestino Valentino
Pittoni, che nell'ultima seduta al Parlamento di Vienna, l'undici
ottobre del 1918 proclama: “Nessuna annessione, nessuna indennità
di guerra, il Partito Socialista e le organizzazioni operaie di
Trieste ritengono che Trieste debba rimanere completamente
indipendente sotto il controllo della Lega delle Nazioni, con una
costituzione veramente democratica fondata sul diritto di voto
generale uguale e diretto e proporzionale, senza distinzione di
sesso, e che vi vengano uniti i territori esclusivamente o
prevalentemente italiani del Friuli e dell'Istria. Noi non vogliamo
che si decida di noi senza di noi, né qui né altrove”.
Il discorso
viene subito stampato sul quotidiano triestino Il Lavoratore
con un titolo ch'è tutto un programma: Per l'assoluta
indipendenza di Trieste. Ma anche questa voce, che è voce di
popolo, è clamantis in deserto, i politici non hanno
coscienza geografica, sono miopi e hanno il cervello in bussola senza
ago. La grande città ch'era vestita di bisso e di scarlatto e adorna
d'oro e di pietre preziose e di perle, una cotanta ricchezza è stata
distrutta in un momento: e questa era la voce di Giovanni che come
l'imperatore aveva il titolo di Apostolico.
Requiem
Aeternam.
L'antica
Austria sovranazionale è stata scancellata dalla carta d'Europa ed
al suo posto ecco nascere, per volontà e ordine dei politici in
girotondo al tavolo di Saint-Germaine, la Repubblica Austriaca
abitata da sette milioni di austro-tedeschi.
Primo
Presidente il socialista dottor Karl Renner, già antico funzionario
imperiale che subito modifica lo stemma e la bandiera, poi ancora fa
delle piccole riforme e altre bagatelle come quella di abolire tutti
i titoli di nobiltà.
Ma ci sono
ancora dei gialloneri con voglie burlone come il conte boemo
Adalberto Sternberg che si fa stampare dei biglietti di visita così
concepiti: “Adalberto Sternberg della Casa dei conti Sternberg
nobilitato da Carlo Magno snobilitato da Carlo Renner”.
Anche il boemo
Sternberg amava Trieste e veniva spesso nella fedelissima città
immediata all'impero per far visita al suo amico, l'arciduca
triestino Lodovico Salvatore, nella sua bella tenuta a Zindis vicino
a Muggia.
La personalità
di questo conte Sternberg è passata nella letteratura mondiale
grazie a Hugo von Hofmannsthal che lo prese come modello di signore
feudale dell'opera Der Rosenkavalier, sotto il nome di barone
Ochs von Lerchenau.
E qui la
nostra storia, anzi il nostro fabulieren, termina come l'avrebbe
terminata il signor Andersen, fertile d'immaginazione e maestro nel
raccontare storie e fiabe.
Stretta la
foglia larga la via – Dite la vostra ch'io dico la mia. Ma se
qualcuno preferisce una licenza alla maniera del conte Carlo Gozzi
tutto augellinbelverde, tutto pomi che ballano e acque che cantano,
eccola: ...forse di questa favola contenti non sarete: ma giacchè
l'abbiam fatta per carità battete.
Battete,
naturalmente le mani, e giù il sipario.