giovedì 10 ottobre 2013





La fame nel primo conflitto mondiale: alcune considerazioni.

di Ivo kozina



Introduzione.

Le guerre hanno sempre dominato la scena dell’umanità e si sono spesso accompagnate alla fame e alle malattie, logiche conseguenze di un’attività che comporta la distruzione di vite e di beni materiali.
La guerra, almeno in una visione “cavalleresca”, dovrebbe impegnare e colpire quelli coinvolti direttamente nello scontro, cioè i soldati. Invece non è mai stato così. Già nell’antichità assedi di città e blocchi navali hanno toccato la popolazione non belligerante. La fame è stata un fenomeno collaterale di durata e misura variabili, dovuto ai saccheggi e alle requisizioni oppure alla volontaria distruzione di riserve e raccolti per togliere possibilità di resistenza al nemico assediato.
I Mongoli, ad esempio, erano specialisti nella distruzione sistematica e scrupolosa delle riserve alimentari e dei campi coltivati. Nel XIII secolo, in un territorio tra gli attuali Afganistan ed Iran, l’orda di Gengis Khan arrivò a distruggere meticolosamente estesi e sofisticati sistemi di irrigazione che avevano richiesto il duro lavoro di molte generazioni di orticoltori. La distruzione di dighe, canali e serbatoi, unita al massacro e alla fuga della popolazione locale, portò quelle terre alla completa e definitiva sterilità1.
L’evolversi della scienza e della tecnologia ha determinato un progressivo ed inarrestabile aumento della capacità distruttiva bellica. Di pari passo si è arrivati gradualmente al coinvolgimento sempre più massiccio delle popolazioni civili, vittime sempre più frequenti di deportazioni e massacri. Allo stesso modo l’estendersi ed il potenziarsi della guerra, unito alla coscrizione obbligatoria, ha provocato un incremento del numero dei soldati con una conseguente maggiore necessità di alimenti e bevande sia per i numerosi combattenti che per i numerosi prigionieri.
Nella prima Guerra Mondiale si è assistito ad uno scontro enorme, mai visto prima, tra nazioni ed imperi modernamente armati. La guerra che molti pensavano veloce e dinamica si è trasformata in una esasperante e logorante guerra di posizione che nessuno dei contendenti riusciva a risolvere nel tempo voluto o sperato. In breve tempo la fame e le conseguenti malattie hanno cominciato a far pesare il piatto della bilancia verso la parte che ha avuto più risorse materiali da mettere il campo, in termini di produzione industriale e, soprattutto, cibo. Un soldato con la pancia vuota è più debole e vulnerabile alle malattie di uno normalmente nutrito.
Durante la Grande Guerra la fame è stata una piaga di estese proporzioni, che ha riguardato milioni di individui, civili e militari. Le conseguenti malattie (tifo, colera, tubercolosi e influenza spagnola) dovute in gran parte alla debilitazione fisica hanno spazzato via qualche decina di milioni di persone, specie a guerra già finita.
La storia di questo disastro non viene molto pubblicizzata, in quanto la seconda Guerra Mondiale, tra lager nazisti e bombe atomiche americane, ha purtroppo superato l’orrore della precedente. Ciò nonostante la Grande Guerra conserva un interesse particolare, proprio perché è stata la prima rappresentazione di quello che sarebbe successo pochi decenni dopo: deportazioni, campi di prigionia, morte per fame e malattie su scala mondiale.
Affronterò brevemente il problema della fame in tre casi specifici: prigionieri di guerra italiani, prigionieri di guerra austro-ungarici e popolazione civile. Per i civili porterò ad esempio il caso di Trieste, la città in cui sono nato e vivo.
Da questa breve ricerca risulterà un duplice ed interessante aspetto della fame in tempo di guerra: uno come effetto derivato, l’altro come effetto punitivo voluto e cercato.
Alcuni luoghi teatro delle morti per fame saranno gli stessi nella Seconda Guerra Mondiale, resi in quel frangente più spaventosi dalla sopravvenuta teoria dello sterminio razziale e politico.
La fame, di solito, colpisce molto più duramente i prigionieri di guerra rispetto ai civili, per ovvie ragioni. L’isolamento in un paese straniero e nemico rende la vita dei prigionieri molto più dura e precaria rispetto a chi, seppure in miseria e in difficoltà, rimane a casa propria, inserito in una comunità che bene o male cerca di alleviare le carenze e le sofferenze. Che si tratti di comunità di villaggio o urbane, di solito scattano sistemi di mutuo aiuto o di aiuto statale che seppur scarso è meglio del poco o nulla che hanno spesso i prigionieri di guerra.
La durezza della guerra e le distruzioni apportate, unite all’allontanamento da casa di braccia forti dedite in gran parte all’agricoltura, crearono in Europa una situazione generalizzata di carenza di manodopera nei campi e di conseguente calo della produzione agricola. In un quadro del genere è ovvio che l’ultimo anello della distribuzione delle scarse risorse sia stato quello dei soldati prigionieri, specie quelli italiani malvisti dal proprio Comando Supremo. Quest’ultimo, incapace di un’autocritica interna, preferì scaricare sui soldati la colpa delle sconfitte. I prigionieri di guerra italiani visti dunque come cattivi combattenti o addirittura generalmente come disertori da punire. L’arma coscientemente usata è stata la fame. Il prezzo di tale pensiero distorto è stato un calvario di indicibile sofferenza per quei disgraziati operai e contadini finiti dentro ad una divisa e dietro ai reticolati.

Prigionieri di guerra austro-ungarici.   

Un libro della ricercatrice e storica triestina Marina Rossi ha indagato sulla situazione dei soldati austro-ungarici prigionieri nei campi della Russia zarista. La curiosità è che i casi studiati riguardano soldati italiofoni dell’impero, catturati sui campi di Galizia (Ucraina polacca), Bessarabia (regione tra Romania e Moldavia), Carpazi e trasferiti poi nelle regioni del Dnepr o addirittura in Asia centrale.
Come in tutti i fronti della Grande Guerra, il momento della cattura sembrò a molti una liberazione. Dopo il freddo, la fatica, i pidocchi, la dissenteria e la paura sotto la pioggia di fuoco e schegge, ritrovarsi prigionieri significò un momentaneo sollievo. Ben presto i soldati prigionieri ebbero la consapevolezza di essere finiti in una nuova zona a rischio: le marce, i lunghi trasferimenti e l’internamento.
La fame e la sporcizia si presentarono già nei primi giorni di prigionia. Una colonna di prigionieri catturati sul fronte del Dnepr viene così descritta:

Il gruppo di uomini sostanti nel viottolo, costituito da un centinaio di prigionieri austriaci, avevano perduto tutto l’aspetto di soldati per diventare un branco di pezzenti…La stanchezza, il rilassamento dei nervi, il sudiciume e la fame avevano fatto il resto. 2

Solo la pietà ed il coraggio delle donne russe aiutò quei disgraziati a sopravvivere. Sfidando i cavalli e le frustate dei cosacchi di scorta riuscirono a buttare patate affumicate ai prigionieri. Scene simili si ripresentarono anche nella seconda guerra mondiale.
La scarsità di cibo alimentò un clima di conflitto che generò spesso situazioni di forte antagonismo tra gli stessi prigionieri. Il libro riporta un caso di una baracca che ospitava 4000 prigionieri di tutte le nazionalità, dove i furti di vestiti erano frequenti e dove un gruppo di prigionieri ungheresi scatenò una gigantesca rissa generale assaltando un carro che trasportava del pane bianco.3
Il problema della fame si ingigantì con il proseguire della guerra, a causa del progressivo aumento del numero di prigionieri.
Nel campo di Darnitsa, nel distretto di Kiev, si registrarono crescenti problemi. L’autunno del 1916 fu molto critico. In una settimana, ai 12.000 prigionieri giornalieri si aggiunsero migliaia di feriti russi e di profughi in fuga dalle zone di guerra della Galizia. Ottenere una scarsa minestra d’orzo, unica fonte di sostentamento, generò episodi di violenza anche mortali.4
Prigionieri finirono travolti e calpestati dalla folla impazzita e solo le baionette delle guardie ristabilirono l’ordine. La cucina doveva preparare la zuppa per 40.000 affamati. Spesso i più sfortunati arrivavano al traguardo sofferto senza trovare più niente da mangiare.5
La scarsa alimentazione e la fatica dei lavori forzati cui furono sottoposti molti prigionieri crearono situazioni drammatiche, specie nelle regioni del nord della grande Russia.
Nel biennio 1915-16, 70.000 prigionieri austro-germanici vennero assegnati alla costruzione della ferrovia di Murmansk. Il 45% vi trovò la morte ed il 40% riportò gravi danni alla salute.6
Al lavoro duro a basse temperature, in alcuni giorni anche 45 gradi sotto zero, si unì il vitto scarso ed il comportamento violento dei guardiani cosacchi. Polmonite e scorbuto fecero il resto. Il cimitero di Onega, sul Mar Bianco, ospita i resti dei disgraziati.
Non andò meglio a quelli adibiti allo scavo di un canale nella regione di Kalinin:

Qui tutti i giorni ne muoiono consumati dal lavoro e dallo scarso cibo: due zuppe d’acqua e poche rape, una cascia in quantità di 3-4 cucchiai e 750 grammi di pane. […] Siamo deperiti e non andiamo più nessuno al lavoro al canale.7

Su un isolotto nel Mar Caspio, al largo di Bakù, il campo di Narghen registrò nel solo1916 il decesso di 1400 prigionieri su 4000 totali. In questo caso il problema fu ancora più tremendo, perché allo scarso cibo si aggiunse la sete che faceva impazzire i prigionieri:

Molti sono malati di dissenteria che si propaga dal secondo al primo piano dei letti. Ci sono insetti e parassiti in enorme quantità. I morti sono 40 al giorno. Il vitto è abominevole: una orribile sbobba con un po’ di patate. Tuttavia, quando abbiamo chiesto ai prigionieri quali fossero le necessità più urgenti hanno risposto: bere.8

Molti dei luoghi di detenzione nella sterminata Russia saranno gli stessi impiegati durante la seconda guerra mondiale. La fame e la malnutrizione saranno ancora le protagoniste assieme alle malattie, triste costante della guerra.

Trieste al fronte.    

Come già detto, anche la popolazione civile ai margini della guerra soffrì la fame.
La città di Trieste si trovava a pochi passi dal fronte, immediata retrovia delle truppe austro-ungariche. La notizia dello scoppio della guerra venne accolta con incredulo stupore dalla popolazione triestina che in brevissimo tempo, alcuni mesi, si dovette confrontare con la dura realtà della carenza alimentare e del mercato nero. La precedenza data alle esigenze militari privò la città di gran parte dei prodotti agricoli ed alimentari locali. Le consuetudini cambiarono velocemente, sia in termini di tenore di vita che di comportamenti sociali.
Come nota Lucio Fabi:

Il disagio sociale e la miseria di guerra influenzano profondamente i comportamenti e la mentalità collettiva della popolazione. Generano nuovi bisogni e nuove aspettative e portano ai livelli più alti le contraddizioni e le frustrazioni9

Già nella primavera del 1915 rivolte popolari degenerarono in saccheggi e atti vandalici contro fornai accusati di speculare sulla qualità e sul prezzo del pane. Poi fu la volta dei negozi di generi di lusso, infranti e saccheggiati.
Solo la proclamazione dello stato d’assedio mise fine alla rivolta e ai saccheggi.
Il razionamento, le tessere alimentari e le mense per i poveri si imposero in tempi rapidi.
Corruzione e borsanera accompagnarono la vita della città. La miseria e la carenza alimentare aumentarono a livelli preoccupanti. I più colpiti furono ovviamente i ceti popolari. In tale contesto si può parare di “decessi sociali”: quelli provocati dalla tubercolosi che colpì i più poveri perché più deboli e denutriti. Nel 1918 ci furono 461 decessi nei rioni popolari (città vecchia, Barriera vecchia e S. Giacomo) contro 166 nei rioni borghesi (città nuova e Barriera nuova).10
I morti per debolezza, registrati nello stesso anno e nelle stesse zone ammontarono a 40 nei quartieri popolari e a 11 in quelli borghesi.11 Ad ogni modo, al di là della differenza dovuta alla classe sociale, si può immaginare quale sia stata la durezza della vita in quanto nemmeno i più agiati passarono indenni attraverso tale esperienza.
Nella nuova e complicata situazione esistenziale aumentarono fortemente i suicidi femminili, anche questo un segno inequivocabile di una ripartizione diseguale del disagio.
Le donne furono quelle che pagarono un alto prezzo in termini di vulnerabilità.
La buona e rassicurante morale lasciò velocemente il posto ad una rilassatezza dei costumi in buona parte dovuta alla miseria. L’aumento diffuso della prostituzione femminile fu l’effetto più scioccante segnalato in città:

La guerra aveva le sue vittime. Un imbaldracchirsi di ragazze fino a ieri oneste, uno stancarsi della solitudine in donne che da troppo tempo avevano i mariti lontani, un traffico d’amore sui confini sempre più incerti della prostituzione …Donne passavano a frotte, soldati passavano a frotte…Donne affamate di un po’ d’eccitamento o di un po’ di pane, rasente i muri, solitarie, il viso nell’ombra…Soldati errabondi affamati d’amore in cerca dell’avventura12

Le autorità austriache dinanzi all’aumento della prostituzione incontrollata temettero il diffondersi di malattie veneree e scattarono frequenti retate poliziesche. I rapporti dell’epoca evidenziano come anche ragazzine giovanissime venissero sorprese per le strade buie. La miseria e soprattutto la fame cambiarono rapidamente il volto della città anche in termini di moralità pubblica.

Prigionieri di guerra italiani.    

La situazione dei prigionieri di guerra italiani internati nei campi di Austria e Germania fu ancora più terribile di quella degli altri belligeranti, in quanto cercata e provocata dal comportamento vendicativo e cinico del Comando Supremo dell’esercito italiano. Specie dopo la disfatta di Caporetto del 1917, i generali italiani vollero giustificare una sconfitta dovuta a propri errori di valutazione incolpando i soldati di vigliaccheria e di fuga dinanzi al nemico. I prigionieri italiani visti quindi come pavidi e disertori da punire nel peggiore dei modi: impedendo agli aiuti inviati da casa di arrivare nei campi di internamento.
La Croce Rossa Internazionale e le stesse nazioni belligeranti rilevarono e denunciarono il comportamento criminale del governo italiano e del Comando Supremo.
L’Austria-Ungheria e la Germania, ormai estremamente a corto di scorte alimentari, protestarono contro la propaganda italiana che le voleva uniche responsabili del deperimento e della morte dei prigionieri italiani. Alcune commissioni imparziali ristabilirono, all’epoca, la verità, ma in Italia si continuò a nasconderla e ad incolpare i tedeschi delle morti per fame.
Il libro corposo e dettagliato di Giovanna Procacci offre una vasta serie di testimonianze di questa brutta storia che ancora oggi fatica a venire alla luce.
L’apertura del capitolo sui prigionieri si apre con due testimonianze emblematiche. L’ufficiale Salsa rivela:

Al campo della truppa i nostri soldati vengono lasciati morire di fame come per una distruzione sistematica: nessun aiuto giunge dalla patria che sembra aver rinnegato questi combattenti sfortunati…pare che un sordo rancore incomba su questi soldati: mentre prigionieri francesi, inglesi, perfino russi, vengono forniti di viveri direttamente dai loro governi, i nostri sono abbandonati così13

Un generale medico ispettore nel 1918 annota:

non ho osservato soltanto dei tubercolitici, ma soldati ammiseriti da un profondo marasma da inazione, da una consunzione organica che è più grave della tubercolosi e che rivela il lento logorio ed il consumo dei tessuti dell’organismo ridotto agli estremi della resistenza fisiologica14

Come riferito dal libro, i prigionieri italiani sparsi nei campi d’Europa e dell’Impero ottomano furono circa 600.000 di cui solo il 3% ufficiali. Il numero degli arruolati italiani fu di circa 6 milioni di uomini. Calcolando però l’effettivo esercito operante al fronte, un soldato su sette conobbe la prigionia.
Quello che risulta impressionante è che 100.000 prigionieri non fecero ritorno a casa. Solo una esigua parte si fermò nei paesi di detenzione. Quasi tutti morirono di prigionia.
Le cause della morte dipesero in minima parte dalle ferite contratte in battaglia. Circa il 90% dei prigionieri italiani morì di “malattia”. La prima causa di malattia, assieme alla tubercolosi, fu l’edema per fame.15
Se si considera che la tubercolosi colpisce facilmente i fisici deboli e denutriti, si può capire che alla fine la fame, aiutata in alcuni casi dalla fatica e dal freddo, fu il grande assassino dei soldati detenuti.
L’incidenza di morte non ebbe uguali negli altri eserciti, escluso forse tra i russi.
Il fatto grave, come riporta il libro, è che il problema dei prigionieri di guerra italiani fu trasformato dal Comando Supremo in un vero e proprio caso di sterminio collettivo. Addirittura Austria e Germania sollecitarono il governo italiano in senso umanitario, senza ottenere risposta. L’unica concessione fatta dal governo italiano fu di autorizzare l’invio di pacchi da parte delle famiglie che se lo potevano permettere. Salvo poi lasciare che questi aiuti si perdessero o che venissero caricati in vagoni rotti o lasciati aperti apposta, dove si infradiciavano di pioggia e marcivano nelle lunghe soste. Alla Croce Rossa italiana il Comando Supremo vietò addirittura di ricorrere a pubbliche sottoscrizioni per i prigionieri. Non sazio, il CS diffuse la voce che i pochi convogli di aiuti venivano requisiti dagli austriaci e dati alla popolazione tedesca. Tutte le autorità internazionali smentirono questa versione, ma in Italia si continuò con la menzogna.
Intanto, i prigionieri continuavano a morire. Il deperimento fisico venne registrato in alcuni casi documentati sui due-tre chili alla settimana.
Delegati internazionali registrarono che la dieta del prigioniero di truppa italiano era pari ad un ottavo di pagnotta, alcune rape e carote bollite nell’acqua senza nessun condimento. Niente di più.16
Tale dieta era la stessa prevista per i soldati austriaci e per le popolazioni locali, tutti ridotti alla fame ma almeno con la possibilità di integrare il vitto con qualche acquisto al mercato nero o con piccoli aiuti di parenti o conoscenti in campagna.
Al momento della liberazione, come riconosciuto dal comando di corpo d’armata di Genova, i sopravvissuti non riuscivano nemmeno a percorrere pochi chilometri a piedi ed i loro peso era al di sotto dei 50 o addirittura dei 40 chili.17
Tra i campi di prigionia dell’impero austro-ungarico troviamo il più grande a Mauthausen. Un luogo che diverrà ancor più lugubre nella seconda guerra mondiale quando alla tragicità della guerra si aggiungerà la teoria dello sterminio razziale e politico.



Bibliografia.

Fabi Lucio, Una città al fronte. Trieste 1914-1918, Qualestoria n. 3, Trieste, 1983.

Hoàng Michel, Gengis Khan, Garzanti ed., 1992.

Procacci Giovanna, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

Rossi Marina, I prigionieri dello zar. Soldati italiani dell’esercito austro-ungarico nei lager della Russia (1914-1918), Mursia ed., Milano, 1997.





1 Hoàng Michel, Gengis Khan, Garzanti ed., 1992, p.270.
2 Rossi Marina, I prigionieri dello Zar, p. 87
3 Op. cit., p. 92
4 Op. cit., p. 106-107
5 Op. cit., p. 109
6 Op. cit., p. 128
7 Op. cit., p.134
8 Op. cit., p. 146
9 Fabi Lucio, Una città al fronte. Trieste 1914-1918, Qualestoria n.3, 1983.
10 Op. cit., p. 37
11 Op. cit., p. 36
12 Op. cit., p. 30
13 Procacci Giovanna, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra, Bollati e Boringhieri ed., Torino 2000, p. 167
14 Ibid.
15 Op. cit., p. 171
16 Op. cit., p. 212, nota 88
17 Ibid.

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