La
fame nel primo conflitto mondiale: alcune considerazioni.
di
Ivo kozina
Introduzione.
Le guerre hanno sempre dominato la scena
dell’umanità e si sono spesso accompagnate alla fame e alle
malattie, logiche conseguenze di un’attività che comporta la
distruzione di vite e di beni materiali.
La guerra, almeno in una visione
“cavalleresca”, dovrebbe impegnare e colpire quelli coinvolti
direttamente nello scontro, cioè i soldati. Invece non è mai stato
così. Già nell’antichità assedi di città e blocchi navali hanno
toccato la popolazione non belligerante. La fame è stata un fenomeno
collaterale di durata e misura variabili, dovuto ai saccheggi e alle
requisizioni oppure alla volontaria distruzione di riserve e raccolti
per togliere possibilità di resistenza al nemico assediato.
I Mongoli, ad esempio,
erano specialisti nella distruzione sistematica e scrupolosa delle
riserve alimentari e dei campi coltivati. Nel XIII secolo, in un
territorio tra gli attuali Afganistan ed Iran, l’orda di Gengis
Khan arrivò a distruggere meticolosamente estesi e sofisticati
sistemi di irrigazione che avevano richiesto il duro lavoro di molte
generazioni di orticoltori. La distruzione di dighe, canali e
serbatoi, unita al massacro e alla fuga della popolazione locale,
portò quelle terre alla completa e definitiva sterilità1.
L’evolversi della scienza e della
tecnologia ha determinato un progressivo ed inarrestabile aumento
della capacità distruttiva bellica. Di pari passo si è arrivati
gradualmente al coinvolgimento sempre più massiccio delle
popolazioni civili, vittime sempre più frequenti di deportazioni e
massacri. Allo stesso modo l’estendersi ed il potenziarsi della
guerra, unito alla coscrizione obbligatoria, ha provocato un
incremento del numero dei soldati con una conseguente maggiore
necessità di alimenti e bevande sia per i numerosi combattenti che
per i numerosi prigionieri.
Nella prima Guerra Mondiale si è
assistito ad uno scontro enorme, mai visto prima, tra nazioni ed
imperi modernamente armati. La guerra che molti pensavano veloce e
dinamica si è trasformata in una esasperante e logorante guerra di
posizione che nessuno dei contendenti riusciva a risolvere nel tempo
voluto o sperato. In breve tempo la fame e le conseguenti malattie
hanno cominciato a far pesare il piatto della bilancia verso la parte
che ha avuto più risorse materiali da mettere il campo, in termini
di produzione industriale e, soprattutto, cibo. Un soldato con la
pancia vuota è più debole e vulnerabile alle malattie di uno
normalmente nutrito.
Durante la Grande Guerra la fame è
stata una piaga di estese proporzioni, che ha riguardato milioni di
individui, civili e militari. Le conseguenti malattie (tifo, colera,
tubercolosi e influenza spagnola) dovute in gran parte alla
debilitazione fisica hanno spazzato via qualche decina di milioni di
persone, specie a guerra già finita.
La storia di questo disastro non
viene molto pubblicizzata, in quanto la seconda Guerra Mondiale, tra
lager nazisti e bombe atomiche americane, ha purtroppo superato
l’orrore della precedente. Ciò nonostante la Grande Guerra
conserva un interesse particolare, proprio perché è stata la prima
rappresentazione di quello che sarebbe successo pochi decenni dopo:
deportazioni, campi di prigionia, morte per fame e malattie su scala
mondiale.
Affronterò brevemente il problema
della fame in tre casi specifici: prigionieri di guerra italiani,
prigionieri di guerra austro-ungarici e popolazione civile. Per i
civili porterò ad esempio il caso di Trieste, la città in cui sono
nato e vivo.
Da questa breve ricerca risulterà un
duplice ed interessante aspetto della fame in tempo di guerra: uno
come effetto derivato, l’altro come effetto punitivo voluto e
cercato.
Alcuni luoghi teatro delle morti per fame saranno
gli stessi nella Seconda Guerra Mondiale, resi in quel frangente più
spaventosi dalla sopravvenuta teoria dello sterminio razziale e
politico.
La fame, di solito, colpisce molto più duramente
i prigionieri di guerra rispetto ai civili, per ovvie ragioni.
L’isolamento in un paese straniero e nemico rende la vita dei
prigionieri molto più dura e precaria rispetto a chi, seppure in
miseria e in difficoltà, rimane a casa propria, inserito in una
comunità che bene o male cerca di alleviare le carenze e le
sofferenze. Che si tratti di comunità di villaggio o urbane, di
solito scattano sistemi di mutuo aiuto o di aiuto statale che seppur
scarso è meglio del poco o nulla che hanno spesso i prigionieri di
guerra.
La durezza della guerra e le distruzioni
apportate, unite all’allontanamento da casa di braccia forti dedite
in gran parte all’agricoltura, crearono in Europa una situazione
generalizzata di carenza di manodopera nei campi e di conseguente
calo della produzione agricola. In un quadro del genere è ovvio che
l’ultimo anello della distribuzione delle scarse risorse sia stato
quello dei soldati prigionieri, specie quelli italiani malvisti dal
proprio Comando Supremo. Quest’ultimo, incapace di un’autocritica
interna, preferì scaricare sui soldati la colpa delle sconfitte. I
prigionieri di guerra italiani visti dunque come cattivi combattenti
o addirittura generalmente come disertori da punire. L’arma
coscientemente usata è stata la fame. Il prezzo di tale pensiero
distorto è stato un calvario di indicibile sofferenza per quei
disgraziati operai e contadini finiti dentro ad una divisa e dietro
ai reticolati.
Un libro della ricercatrice e storica triestina
Marina Rossi ha indagato sulla situazione dei soldati austro-ungarici
prigionieri nei campi della Russia zarista. La curiosità è che i
casi studiati riguardano soldati italiofoni dell’impero, catturati
sui campi di Galizia (Ucraina polacca), Bessarabia (regione tra
Romania e Moldavia), Carpazi e trasferiti poi nelle regioni del Dnepr
o addirittura in Asia centrale.
Come in tutti i fronti della Grande Guerra, il
momento della cattura sembrò a molti una liberazione. Dopo il
freddo, la fatica, i pidocchi, la dissenteria e la paura sotto la
pioggia di fuoco e schegge, ritrovarsi prigionieri significò un
momentaneo sollievo. Ben presto i soldati prigionieri ebbero la
consapevolezza di essere finiti in una nuova zona a rischio: le
marce, i lunghi trasferimenti e l’internamento.
La fame e la sporcizia si presentarono già nei
primi giorni di prigionia. Una colonna di prigionieri catturati sul
fronte del Dnepr viene così descritta:
Il gruppo di uomini sostanti nel viottolo,
costituito da un centinaio di prigionieri austriaci, avevano perduto
tutto l’aspetto di soldati per diventare un branco di pezzenti…La
stanchezza, il rilassamento dei nervi, il sudiciume e la fame avevano
fatto il resto. 2
Solo la pietà ed il coraggio delle donne russe
aiutò quei disgraziati a sopravvivere. Sfidando i cavalli e le
frustate dei cosacchi di scorta riuscirono a buttare patate
affumicate ai prigionieri. Scene simili si ripresentarono anche nella
seconda guerra mondiale.
La scarsità di cibo alimentò un clima di
conflitto che generò spesso situazioni di forte antagonismo tra gli
stessi prigionieri. Il libro riporta un caso di una baracca che
ospitava 4000 prigionieri di tutte le nazionalità, dove i furti di
vestiti erano frequenti e dove un gruppo di prigionieri ungheresi
scatenò una gigantesca rissa generale assaltando un carro che
trasportava del pane bianco.3
Il problema della fame si ingigantì con il
proseguire della guerra, a causa del progressivo aumento del numero
di prigionieri.
Nel campo di Darnitsa, nel distretto di Kiev, si
registrarono crescenti problemi. L’autunno del 1916 fu molto
critico. In una settimana, ai 12.000 prigionieri giornalieri si
aggiunsero migliaia di feriti russi e di profughi in fuga dalle zone
di guerra della Galizia. Ottenere una scarsa minestra d’orzo, unica
fonte di sostentamento, generò episodi di violenza anche mortali.4
Prigionieri finirono travolti e calpestati dalla
folla impazzita e solo le baionette delle guardie ristabilirono
l’ordine. La cucina doveva preparare la zuppa per 40.000 affamati.
Spesso i più sfortunati arrivavano al traguardo sofferto senza
trovare più niente da mangiare.5
La scarsa alimentazione e la fatica dei lavori
forzati cui furono sottoposti molti prigionieri crearono situazioni
drammatiche, specie nelle regioni del nord della grande Russia.
Nel biennio 1915-16, 70.000 prigionieri
austro-germanici vennero assegnati alla costruzione della ferrovia di
Murmansk. Il 45% vi trovò la morte ed il 40% riportò gravi danni
alla salute.6
Al lavoro duro a basse temperature, in alcuni
giorni anche 45 gradi sotto zero, si unì il vitto scarso ed il
comportamento violento dei guardiani cosacchi. Polmonite e scorbuto
fecero il resto. Il cimitero di Onega, sul Mar Bianco, ospita i resti
dei disgraziati.
Non andò meglio a quelli adibiti allo scavo di un
canale nella regione di Kalinin:
Qui tutti i giorni ne muoiono consumati dal
lavoro e dallo scarso cibo: due zuppe d’acqua e poche rape, una
cascia in quantità di 3-4 cucchiai e 750 grammi di pane. […] Siamo
deperiti e non andiamo più nessuno al lavoro al canale.7
Su un isolotto nel Mar Caspio, al largo di Bakù,
il campo di Narghen registrò nel solo1916 il decesso di 1400
prigionieri su 4000 totali. In questo caso il problema fu ancora più
tremendo, perché allo scarso cibo si aggiunse la sete che faceva
impazzire i prigionieri:
Molti sono malati di dissenteria che si propaga
dal secondo al primo piano dei letti. Ci sono insetti e parassiti in
enorme quantità. I morti sono 40 al giorno. Il vitto è abominevole:
una orribile sbobba con un po’ di patate. Tuttavia, quando abbiamo
chiesto ai prigionieri quali fossero le necessità più urgenti hanno
risposto: bere.8
Molti dei luoghi di detenzione nella sterminata
Russia saranno gli stessi impiegati durante la seconda guerra
mondiale. La fame e la malnutrizione saranno ancora le protagoniste
assieme alle malattie, triste costante della guerra.
Come già detto, anche la popolazione civile ai
margini della guerra soffrì la fame.
La città di Trieste si trovava a pochi passi dal
fronte, immediata retrovia delle truppe austro-ungariche. La notizia
dello scoppio della guerra venne accolta con incredulo stupore dalla
popolazione triestina che in brevissimo tempo, alcuni mesi, si
dovette confrontare con la dura realtà della carenza alimentare e
del mercato nero. La precedenza data alle esigenze militari privò la
città di gran parte dei prodotti agricoli ed alimentari locali. Le
consuetudini cambiarono velocemente, sia in termini di tenore di vita
che di comportamenti sociali.
Come nota Lucio Fabi:
Il disagio sociale e la miseria di guerra
influenzano profondamente i comportamenti e la mentalità collettiva
della popolazione. Generano nuovi bisogni e nuove aspettative e
portano ai livelli più alti le contraddizioni e le frustrazioni…9
Già nella primavera del 1915 rivolte popolari
degenerarono in saccheggi e atti vandalici contro fornai accusati di
speculare sulla qualità e sul prezzo del pane. Poi fu la volta dei
negozi di generi di lusso, infranti e saccheggiati.
Solo la proclamazione dello stato d’assedio mise
fine alla rivolta e ai saccheggi.
Il razionamento, le tessere alimentari e le mense
per i poveri si imposero in tempi rapidi.
Corruzione e borsanera accompagnarono la vita
della città. La miseria e la carenza alimentare aumentarono a
livelli preoccupanti. I più colpiti furono ovviamente i ceti
popolari. In tale contesto si può parare di “decessi sociali”:
quelli provocati dalla tubercolosi che colpì i più poveri perché
più deboli e denutriti. Nel 1918 ci furono 461 decessi nei rioni
popolari (città vecchia, Barriera vecchia e S. Giacomo) contro 166
nei rioni borghesi (città nuova e Barriera nuova).10
I morti per debolezza, registrati nello stesso
anno e nelle stesse zone ammontarono a 40 nei quartieri popolari e a
11 in quelli borghesi.11
Ad ogni modo, al di là della differenza dovuta alla classe sociale,
si può immaginare quale sia stata la durezza della vita in quanto
nemmeno i più agiati passarono indenni attraverso tale esperienza.
Nella nuova e complicata situazione esistenziale
aumentarono fortemente i suicidi femminili, anche questo un segno
inequivocabile di una ripartizione diseguale del disagio.
Le donne furono quelle che pagarono un alto prezzo
in termini di vulnerabilità.
La buona e rassicurante morale lasciò velocemente
il posto ad una rilassatezza dei costumi in buona parte dovuta alla
miseria. L’aumento diffuso della prostituzione femminile fu
l’effetto più scioccante segnalato in città:
La guerra aveva le sue vittime. Un
imbaldracchirsi di ragazze fino a ieri oneste, uno stancarsi della
solitudine in donne che da troppo tempo avevano i mariti lontani, un
traffico d’amore sui confini sempre più incerti della
prostituzione …Donne passavano a frotte, soldati passavano a
frotte…Donne affamate di un po’ d’eccitamento o di un po’ di
pane, rasente i muri, solitarie, il viso nell’ombra…Soldati
errabondi affamati d’amore in cerca dell’avventura…12
Le autorità austriache dinanzi all’aumento
della prostituzione incontrollata temettero il diffondersi di
malattie veneree e scattarono frequenti retate poliziesche. I
rapporti dell’epoca evidenziano come anche ragazzine giovanissime
venissero sorprese per le strade buie. La miseria e soprattutto la
fame cambiarono rapidamente il volto della città anche in termini di
moralità pubblica.
La situazione dei prigionieri di guerra italiani
internati nei campi di Austria e Germania fu ancora più terribile di
quella degli altri belligeranti, in quanto cercata e provocata dal
comportamento vendicativo e cinico del Comando Supremo dell’esercito
italiano. Specie dopo la disfatta di Caporetto del 1917, i generali
italiani vollero giustificare una sconfitta dovuta a propri errori di
valutazione incolpando i soldati di vigliaccheria e di fuga dinanzi
al nemico. I prigionieri italiani visti quindi come pavidi e
disertori da punire nel peggiore dei modi: impedendo agli aiuti
inviati da casa di arrivare nei campi di internamento.
La Croce Rossa Internazionale e le stesse nazioni
belligeranti rilevarono e denunciarono il comportamento criminale del
governo italiano e del Comando Supremo.
L’Austria-Ungheria e la Germania, ormai
estremamente a corto di scorte alimentari, protestarono contro la
propaganda italiana che le voleva uniche responsabili del deperimento
e della morte dei prigionieri italiani. Alcune commissioni imparziali
ristabilirono, all’epoca, la verità, ma in Italia si continuò a
nasconderla e ad incolpare i tedeschi delle morti per fame.
Il libro corposo e dettagliato di Giovanna
Procacci offre una vasta serie di testimonianze di questa brutta
storia che ancora oggi fatica a venire alla luce.
L’apertura del capitolo sui prigionieri si apre
con due testimonianze emblematiche. L’ufficiale Salsa rivela:
Al campo della truppa i nostri soldati vengono
lasciati morire di fame come per una distruzione sistematica: nessun
aiuto giunge dalla patria che sembra aver rinnegato questi
combattenti sfortunati…pare che un sordo rancore incomba su questi
soldati: mentre prigionieri francesi, inglesi, perfino russi, vengono
forniti di viveri direttamente dai loro governi, i nostri sono
abbandonati così…13
Un generale medico ispettore nel 1918 annota:
…non ho osservato soltanto dei tubercolitici,
ma soldati ammiseriti da un profondo marasma da inazione, da una
consunzione organica che è più grave della tubercolosi e che rivela
il lento logorio ed il consumo dei tessuti dell’organismo ridotto
agli estremi della resistenza fisiologica…14
Come riferito dal libro, i prigionieri italiani
sparsi nei campi d’Europa e dell’Impero ottomano furono circa
600.000 di cui solo il 3% ufficiali. Il numero degli arruolati
italiani fu di circa 6 milioni di uomini. Calcolando però
l’effettivo esercito operante al fronte, un soldato su sette
conobbe la prigionia.
Quello che risulta impressionante è che 100.000
prigionieri non fecero ritorno a casa. Solo una esigua parte si fermò
nei paesi di detenzione. Quasi tutti morirono di prigionia.
Le cause della morte dipesero in minima parte
dalle ferite contratte in battaglia. Circa il 90% dei prigionieri
italiani morì di “malattia”. La prima causa di malattia, assieme
alla tubercolosi, fu l’edema per fame.15
Se si considera che la tubercolosi colpisce
facilmente i fisici deboli e denutriti, si può capire che alla fine
la fame, aiutata in alcuni casi dalla fatica e dal freddo, fu il
grande assassino dei soldati detenuti.
L’incidenza di morte non ebbe uguali negli altri
eserciti, escluso forse tra i russi.
Il fatto grave, come riporta il libro, è che il
problema dei prigionieri di guerra italiani fu trasformato dal
Comando Supremo in un vero e proprio caso di sterminio collettivo.
Addirittura Austria e Germania sollecitarono il governo italiano in
senso umanitario, senza ottenere risposta. L’unica concessione
fatta dal governo italiano fu di autorizzare l’invio di pacchi da
parte delle famiglie che se lo potevano permettere. Salvo poi
lasciare che questi aiuti si perdessero o che venissero caricati in
vagoni rotti o lasciati aperti apposta, dove si infradiciavano di
pioggia e marcivano nelle lunghe soste. Alla Croce Rossa italiana il
Comando Supremo vietò addirittura di ricorrere a pubbliche
sottoscrizioni per i prigionieri. Non sazio, il CS diffuse la voce
che i pochi convogli di aiuti venivano requisiti dagli austriaci e
dati alla popolazione tedesca. Tutte le autorità internazionali
smentirono questa versione, ma in Italia si continuò con la
menzogna.
Intanto, i prigionieri continuavano a morire. Il
deperimento fisico venne registrato in alcuni casi documentati sui
due-tre chili alla settimana.
Delegati internazionali registrarono che la dieta
del prigioniero di truppa italiano era pari ad un ottavo di pagnotta,
alcune rape e carote bollite nell’acqua senza nessun condimento.
Niente di più.16
Tale dieta era la stessa prevista per i soldati
austriaci e per le popolazioni locali, tutti ridotti alla fame ma
almeno con la possibilità di integrare il vitto con qualche acquisto
al mercato nero o con piccoli aiuti di parenti o conoscenti in
campagna.
Al momento della liberazione, come riconosciuto
dal comando di corpo d’armata di Genova, i sopravvissuti non
riuscivano nemmeno a percorrere pochi chilometri a piedi ed i loro
peso era al di sotto dei 50 o addirittura dei 40 chili.17
Tra i campi di prigionia dell’impero
austro-ungarico troviamo il più grande a Mauthausen. Un luogo che
diverrà ancor più lugubre nella seconda guerra mondiale quando alla
tragicità della guerra si aggiungerà la teoria dello sterminio
razziale e politico.
Bibliografia.
Fabi Lucio, Una città al fronte. Trieste
1914-1918, Qualestoria n. 3, Trieste, 1983.
Hoàng Michel, Gengis
Khan, Garzanti ed., 1992.
Procacci Giovanna, Soldati e prigionieri
italiani nella Grande guerra, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
Rossi Marina, I prigionieri dello zar. Soldati
italiani dell’esercito austro-ungarico nei lager della Russia
(1914-1918), Mursia ed., Milano, 1997.
1
Hoàng Michel, Gengis Khan, Garzanti ed., 1992, p.270.
2
Rossi Marina, I prigionieri dello Zar, p. 87
3
Op. cit., p. 92
4
Op. cit., p. 106-107
5
Op. cit., p. 109
6
Op. cit., p. 128
7
Op. cit., p.134
8
Op. cit., p. 146
9
Fabi Lucio, Una città al fronte. Trieste 1914-1918,
Qualestoria n.3, 1983.
10
Op. cit., p. 37
11
Op. cit., p. 36
12
Op. cit., p. 30
13
Procacci Giovanna, Soldati e prigionieri italiani nella Grande
guerra, Bollati e Boringhieri ed., Torino 2000, p. 167
14
Ibid.
15
Op. cit., p. 171
16
Op. cit., p. 212, nota 88
17
Ibid.
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